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Federproprietà AbruzzoAppropriazione IndebitaCassazione Civile, Sezione III, Sentenza 09 novembre 1993 n. 11054

Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza 09 novembre 1993 n. 11054

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati: Dott. Giorgio CHERUBINI Presidente Marcello TADDEUCCI Consigliere Enzo MERIGGIOLA Francesco VIZZA Michele LO PIANO Rel. ha pronunciato […]

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Giorgio CHERUBINI Presidente
Marcello TADDEUCCI Consigliere
Enzo MERIGGIOLA
Francesco VIZZA
Michele LO PIANO Rel.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da

MG, elettivamente domiciliato in Roma, c-o la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avv. Bruno Russello, con studio in Montagnana (PD), via Matteotti n. 45, giusta procura a margine del ricorso.

Ricorrente

CONTRO

FB, elettivamente domiciliato in Roma, via Giulio Cesare n. 92, c-o lo studio dell’avv. Mauro Padroni, che lo rappresenta e difende, anche disgiuntamente, con l’avv. Guido Giarola, giusta procura a margine del controricorso.

Controricorrente

visto il ricorso avverso la sentenza n.1063-89 della Corte di appello di Venezia del 17 ottobre – 7 novembre 1989 (R.G. 1142-86);
udito il Consigliere Relatore dott. Michele Lo Piano nella pubblica udienza del 6 aprile 1993;
sentito il P.M. in persona del Sost. Proc. Gen. dott. Dettori che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con atto di citazione del 10 luglio 1982, FB, premesso di aver concesso in affitto, con scrittura del 25 luglio 1973, il proprio esercizio commerciale per la vendita al dettaglio di generi alimentari a MG, il quale aveva assunto l’obbligo “di non portare la licenza commerciale d’esercizio fuori dei locali dell’azienda affittati”, e dedotto che l’affittuario, contravvenendo al suddetto obbligo, si era trasferito in altri locali, dove aveva proseguito l’attività commerciale, convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Padova, il predetto MG, del quale chiese, per effetto della risoluzione del contratto, la condanna alla restituzione ovvero alla volturazione della licenza, oltre al risarcimento del danno.

Costituitosi in giudizio, il MG chiese il rigetto della domanda sostenendo che, nella specie, le parti avevano stipulato un contratto di affitto di immobile e non di azienda, come era dimostrato dal fatto che il FB, dopo la conclusione del contratto, aveva comunicato al Comune la cessazione dell’attività.

Il Tribunale, con sentenza del 21 settembre 1985, dopo aver qualificato il contratto come affitto di azienda, lo dichiarò risolto per inadempimento del MG, che condannò al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio.

La suddetta decisione, impugnata dal MG, fu confermata dalla Corte di appello di Venezia con sentenza del 7 novembre 1989.

Osservò la Corte:

- che il contratto doveva essere qualificato come affitto di azienda;

- che l’esame di altro contratto stipulato il 15 ottobre 1973, invocato dall’appellante a sostegno della propria tesi, non era stato reso possibile dalla omessa produzione in giudizio;

- che il FB non aveva propriamente rinunziato alla licenza, ma si era limitato a comunicare al Comune la cessazione della propria attività, in conseguenza del trasferimento della stessa al MG;

- che la prova testimoniale richiesta dall’appellante diretta a dimostrare l’esatta volontà delle parti appariva superflua in considerazione del fatto che quest’ultima risultava chiara in base al contratto prodotto.

Per la cassazione della suddetta sentenza ha proposto ricorso il MG sulla base di quattro motivi di censura.

Ha resistito con controricorso il FB.

Diritto

Vanno esaminati congiuntamente il primo ed il terzo motivo, poiché attengono entrambi alla qualificazione del negozio intercorso tra le parti.

Con il primo motivo, denunciando vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver qualificato come affitto di azienda il contratto intercorso tra le parti, limitandosi al solo aspetto letterale e senza indagare in ordine a quale fosse la comune volontà dei contraenti, la quale risultava chiaramente dal contratto del 15 ottobre 1978, che era stato ritualmente prodotto, se pur in fotocopia, e che costituiva l’accordo definitivo rispetto al preliminare del 25 luglio 1973.

con il terzo motivo, denunziando violazione dell’art. 2555 c.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver qualificato il contratto come affitto di azienda, senza considerare che unico elemento preponderante considerato dalle parti era stato l’immobile, atteso che le attrezzature e le merci erano state a lui vendute dal FB e che quest’ultimo aveva pure rinunziato alla licenza.

Le censure sono infondate.

È giurisprudenza di questa Corte (v. per tutte Sez. III, 25 maggio 1981 n. 3442), che la cessione in godimento di un locale adibito ad esercizio di una impresa commerciale, integra una locazione di immobile munito di pertinenze ovvero un affitto di azienda, a seconda che oggetto del contratto sia da considerare l’immobile inteso come entità non produttiva, pur se dotato di accessori, ovvero una più vasta ed organica entità, capace di vita economica propria, di cui l’immobile costituisce solo una componente, sia pure principale, legata da un rapporto di complementarità ed indipendenza con gli altri elementi aziendali, e che il relativo accertamento del giudice di merito, il quale deve avere a base l’effettiva comune intenzione delle parti, da valutare in relazione alla consistenza del bene ceduto in godimento e ad ogni circostanza del caso concreto, non è sindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione.

Orbene, la Corte di appello, contrariamente a quanto assume il ricorrente, premessi i criteri distintivi tra il contratto di locazione immobiliare e quello di affitto di azienda, non si è limitata ad esaminare il contenuto letterale del contratto stipulato tra le parti, ma, con apprezzamento insindacabile in questa sede, perché ampiamente motivato e condotto nel rispetto delle regole di ermeneutica di cui agli artt. 1362 e segg. c.c., ha tratto il convincimento che nella specie ricorresse un affitto di azienda, considerando che l’intenzione delle parti, di concludere un contratto del tipo indicato, risultava dal fatto che oggetto dello stesso non erano i singoli beni ma “il negozio di generi alimentari, con tutte le altre voci, con casa di abitazione, garage, terreno, nulla escluso ….” e che era stato fatto espresso divieto all’affittuario di asportare la licenza dal negozio.

In forza di questi elementi, uniti a quello letterale dell’uso del termine “affitto” anziché dell’altro “locazione”, e, quindi, non soltanto in base a quest’ultimo, la Corte ha poi ritenuto che nella specie ricorresse un affitto di azienda, poiché nel contratto risultava “privilegiata la parte dinamica del rapporto, legata all’esercizio dell’attività commerciale e al suo elemento principale, l’avviamento”, di talché doveva individuarsi “nel negozio di generi alimentari, il bene affittato di maggiore consistenza, di cui gli altri erano solo strumentali e, a partire della stessa casa di abitazione, destinati a rendere più agevole e proficuo all’affittuario la gestione dell’esercizio commerciale”.

Per quanto concerne, poi, il contratto del 15 ottobre 1973, non appare suscettibile di censura in sede di legittimità (avrebbe semmai potuto essere oggetto di impugnazione per revocazione) l’affermazione della Corte di appello circa la mancata produzione del relativo documento. In ogni caso, il contenuto di detto documento è stato ugualmente esaminato dalla Corte di merito, in base a ciò che risultava dalla comparsa conclusionale del MG; da detto esame la Corte ha rilevato, che essendovi identità di contenuto con la scrittura del 25 luglio 1973, ne risultava confermata la intenzione dei contraenti di dare luogo ad un rapporto di affitto di azienda.

Con il secondo motivo il ricorrente, premesso che, ai sensi dell’art. 29 della legge n. 426 del 1971, l’affitto dell’azienda comporta l’automatico trasferimento dell’autorizzazione e che il FB aveva, invece, dichiarato di rinunziare alla licenza, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che tale ultima dichiarazione fosse utile ai fini del trasferimento della licenza medesima.

La censura è infondata.

È in primo luogo da rilevare che la Corte di merito ha tenuto a precisare che la comunicazione del FB al Comune non conteneva alcuna rinuncia, ma si limitava a rappresentare all’autorità amministrativa la cessazione dell’attività commerciale, con la contestuale richiesta di una certificazione di tale cessazione “per uso amministrativo”.

La Corte ha poi ritenuto che tale dichiarazione fosse necessaria per consentire il rilascio della nuova licenza al MG.

Tale affermazione della Corte appare corretta alla stregua del disposto dell’art. 29 della legge 11 giugno 1971 n. 426, secondo il quale “il trasferimento della gestione della titolarità di un esercizio di vendita per atto tra vivi o a causa di morte comporta il trasferimento dell’autorizzazione sempre che sia provato l’effettivo trapasso dell’esercizio e il subentrante sia iscritto nel registro previsto dal capo I della presente legge”.

Invero, dal tenore della detta norma risulta non che l’autorizzazione possa essere trasferita da un privato all’altro, come sembra ritenere il ricorrente, ma soltanto un diritto del cessionario ad ottenere, da parte dell’autorità amministrativa, il rilascio di una licenza a lui intestata, nella ricorrenza dei presupposti indicati dalla norma.

E la prova del primo presupposto è data, appunto, dalla dimostrazione della cessione dell’attività commerciale, cui si riconnette la dichiarazione di cessazione della stessa parte del cedente, così come esattamente ritenuto dalla Corte di merito.

Con il quarto motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per non aver ammesso le prove testimoniali indicate per chiarire quale fosse l’esatta volontà delle parti per precisare l’esistenza di accordi verbali, senza tener conto del fatto che il contratto era stato redatto in modo non chiaro da persone che non avevano cognizione di norme giuridiche.

La censura non può trovare accoglimento.

La Corte di merito ha ritenuto di non dover ammettere la prova testimoniale per due ragioni:

- perché essa appariva del tutto superflua “alla luce delle esaminate obiettive e inequivoche emergenze dell’atto scritto”;

- perché, nello stesso atto, era contenuto l’implicito divieto di ricorrere alla prova per testi.

Quest’ultima affermazione della Corte di appello non è censurata dal ricorrente, mentre quanto alla prima è sufficiente ricordare che, secondo il costante orientamento di questa Corte, l’ammissione delle prove è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, la cui pronuncia si sottrae a censura in sede di legittimità, quando sia sorretta da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, che dia conto delle ragioni dell’inutilità dell’esperimento dei mezzi istruttori richiesti, in quanto irrilevanti o assorbiti dai dati già acquisiti.

Per le esposte considerazioni il ricorso deve essere respinto con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione, sezione terza civile, rigetta il ricorso proposto da MG contro la sentenza n. 1063-89 della Corte di appello di Venezia e condanna il predetto ricorrente a rifondere a FB le spese di questo grado del giudizio che liquida in lire 46.700 oltre a lire 1.500.000 (unmilionecinquecentomila) per onorari di avvocato.

Così deciso nella camera di consiglio della III sezione civile della Corte di Cassazione, il 6 aprile 1993.

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