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Federproprietà AbruzzoAffitto di aziendaCassazione Civile, Sezione III, Sentenza 05 gennaio 2005 n. 166

Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza 05 gennaio 2005 n. 166

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE composta dai Signori Magistrati: dott. Paolo VITTORIA Presidente dott. Renato PERCONTE LICATESE Consigliere dott. Michele LO PIANO Consigliere rel. dott. Giovanni Battista […]

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

composta dai Signori Magistrati:
dott. Paolo VITTORIA Presidente
dott. Renato PERCONTE LICATESE Consigliere
dott. Michele LO PIANO Consigliere rel.
dott. Giovanni Battista PETTI Consigliere
dott. Antonio SEGRETO Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da

Polisportiva Acilia s.r.l., con sede in Roma, in persona del suo legale rappresentante pro tempore M.P., elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Cola di Rienzo n. 69, presso lo studio dell’avv. Gian Alberto Ferretti, che la difende, giusta delega in atti.

ricorrente

CONTRO

Centro Sportivo Acilia s.r.l., con sede in Roma, in persona dellegale rappresentante pro tempore dott.ssa S.C., elettivamente domiciliata in Roma, Via Carlo Alberto Racchia n. 2, presso lo studio dell’avv. Giovanna Cantoni, che la difende, giusta delega in atti.

controricorrente

avverso la sentenza n. 724/03 della Corte d’appello di Roma, emessa il 13 febbraio 2003 e depositata il 19 marzo 2003 (R.G. 369/01);
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 4 novembre 2004 dal relatore consigliere dott. Michele Lo Piano;
udito l’avv. Gian Alberto Ferretti;
udito l’avv. Giovanna Cantoni;
udito il P.M., nella persona del sost. proc. gen. dott. Carlo Destro,che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con ricorso depositato il 24 gennaio 2001, la S.r.l. Polisportiva Acilia, quale conduttrice di un complesso sportivo sito in Roma loc. Acilia, propose appello avverso la sentenza n.1542/2001, con la quale il Tribunale di Roma, in accoglimento della domanda avanzata dalla proprietaria S.r.l. Centro Sportivo Acilia, aveva dichiarato risolto il contratto di affitto di azienda, avente ad oggetto un complesso sportivo, per grave inadempimento dell’affittuario con condanna all’immediato rilascio.

L’appellante denunziò:

a) il vizio di ultrapetizione per avere il primo giudice, peraltro erroneamente, qualificato il contratto come affitto di azienda contro la volontà delle parti che, anche nel contratto ed in occasione di altri procedimenti, lo avevano qualificato come contratto di locazione e la conseguente erroneità della condanna al rilascio immediato;

b) la violazione dell’art. 1455 c.c., per erronea applicazione dai parametri di valutazione della importanza dell’inadempimento.

L’appellata chiese il rigetto dell’impugnazione e propose appello incidentale.

La Corte d’appello rigettò l’appello principale e dichiarò inammissibile quello incidentale.

La Corte di merito ritenne:

a) che non sussisteva il vizio di ultrapetizione in ordine alla qualificazione del rapporto;

b) che appariva corretta la qualificazione del rapporto come affitto di azienda;

c) che sussisteva l’inadempimento dell’affittuario, da considerarsi di non scarsa importanza.

Per la cassazione della suddetta sentenza ha proposto ricorso, illustrato con memoria, la Polisportiva Acilia S.r.l.

La Centro Sportivo Acilia S.r.l. ha resistito con controricorso

Diritto

Con il primo motivo – denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c. – la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere respinto il motivo di appello, con il quale era stato lamentato che il primo giudice aveva qualificato come affitto di azienda il contratto stipulato tra le parti, sebbene il Centro Sportivo Acilia, con l’atto introduttivo del giudizio, avesse qualificato lo stesso come contratto di locazione.

La censura è infondata.

La Corte d’appello ha respinto il motivo di impugnazione dedotto dalla Polisportiva Acilia S.r.l. osservando che «il primo giudice, nel qualificare il contratto posto a fondamento della domanda in maniera diversa dal nomen juris allo stesso attribuito dalle parti, non è incorso nel denunziato vizio di ultrapetizione perché il giudice non è vincolato alla qualificazione prospettata dalla parte ed è libero di discostarsene nell’esercizio del potere-dovere di autonoma qualificazione discendente dal principio iura novit curia purché la qualificazione da lui adottata non si risolva nella sostituzione dell’azione espressamente o virtualmente proposta con altra fondata cioè su fatti diversi o su diversa causa petendi”.

Questa Corte osserva che il principio di diritto affermato dal giudice di appello è esatto e non merita censura.

Nella specie, tuttavia, non era neppure necessario che il giudice ricorresse all’applicazione di detto principio.

Dall’esame degli atti, consentito in questa sede, attesa la natura del vizio denunziato, risulta che, contrariamente all’assunto della società ricorrente, la S.r.l. Centro Sportivo Acilia aveva chiesto la risoluzione del contratto intercorso tra le parti, definendo tale contratto quale affitto di azienda, tant’è che aveva sostenuto la tesi che il rapporto era stato erroneamente definito nel contratto quale locazione (cfr. ricorso introduttivo del giudizio depositato il 20 febbraio 1998).

La società convenuta ha avuto ben presente che la società attrice aveva proposto una domanda di risoluzione di contratto di affitto di azienda ed in ordine a tale qualificazione – ritenuta a suo giudizio non corrispondente alla realtà – ha svolto le sue difese, sostenendo che in effetti tra le parti era stato stipulato un contratto di locazione (cfr. comparsa d costituzione del 16 aprile 1998).

Pertanto, poiché la società attrice aveva chiesto la risoluzione di un contratto di affitto di azienda e la società convenuta aveva dedotto che tra le parti era stato stipulato un contratto di locazione, la qualificazione del contratto, nel senso auspicato dall’attrice, non può esser denunziato sotto il profilo della violazione dell’art. 112 c.p.c.

Con il secondo motivo – denunciando violazione degli artt. 2555 e segg. c.c. – la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ravvisato nel contratto stipulato tra le parti un affitto di azienda.

La censura è infondata.

L’accertamento se le parti contraenti abbiano stipulato una locazione di immobile con pertinenze ovvero un affitto di azienda rientra nei compiti del giudice del merito, il quale deve portare l’indagine sulla comune intenzione delle parti e sui beni dedotti in contratto, al fine di stabilire se l’oggetto principale della stipulazione sia un immobile singolarmente considerato ovvero un complesso unitario costituito dall’organizzazione aziendale destinata allo svolgimento di un’attività economica. Consegue che tale accertamento non è sindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione.

La Corte di appello, confermando l’interpretazione che del contratto aveva dato il giudice di primo grado, ha accertato che le parti avevano stipulato un contratto avente ad oggetto «un complesso di beni immobili e di attrezzature sportive varie, tra loro organizzati ai fini della produzione e dello scambio di servizi di carattere sportivo».

La ricorrente contesta tale affermazione con una serie di argomenti che tuttavia hanno carattere di astrattezza, perché nessun riferimento hanno alla fattispecie concreta esaminata dal giudice.

Tuttavia, pur nella rilevata astrattezza, possono individuarsi nella censura due profili, che vanno esaminati.

Sotto un primo profilo, la ricorrente deduce sostanzialmente che la sola cessione di un complesso di beni, ove manchi l’attività di impresa, intesa come esercizio professionale organizzato di un’attività economica per la produzione e lo scambio di beni e di servizi, non può configurare l’affitto di azienda; la ricorrente fa l’esempio del complesso sportivo ceduto ad un ente per lo svolgimento di attività sportiva da parte dei suoi dipendenti ed altri consimili.

Senonché, l’argomento svolto dalla ricorrente, non tocca l’accertamento svolto dal giudice di merito, il quale ha verificato che nella specie il complesso era utilizzato (e come tale era stato considerato nel contratto) per l’esercizio di un’attività di impresa.

Del resto, che nella specie il complesso sportivo fosse destinato all’esercizio di un’attività di impresa connotata dal fine di lucro è riconosciuto implicitamente dalla stessa ricorrente (la quale è peraltro una società a responsabilità limitata), che, a pagina n. 3 del ricorso, rammenta che in primo grado aveva svolto domanda riconvenzionale nei confronti della concedente, denunciata come inadempiente, per ottenerne la condanna al risarcimento del danno per la perdita della clientela.

Sotto un secondo profilo la ricorrente sembra dare rilievo al fatto che oggetto del contratto era stato «un impianto sportivo che forse non era stato mai esercitato come impresa».

Orbene, se tale rilievo deve essere inteso come affermazione della necessità che per aversi cessione di azienda debba esservi esercizio di una impresa in atto, deve essere osservato come esso sia infondato, atteso che, come questa Corte ha più volte precisato (v., tra le altre, Cass. 26 luglio 1986 n. 4809; 22 agosto 1983 n. 5453), l’azienda concessa in affitto può anche essere non ancora in grado di funzionare, essendo sufficiente che i vari elementi dedotti in contratto siano potenzialmente idonei allo svolgimento dell’attività di impresa. Oggetto dell’affitto può essere, cioè, anche un’azienda in fase statica e non ancora dinamica, cosicchè è irrilevante che la parte concedente non svolgesse in precedenza attività imprenditoriale, che detta attività sia stata iniziata dall’affittuario, che i beni aziendali non fossero ancora funzionanti quando è stato stipulato il contratto.

Con i motivi dal terzo al sesto, la ricorrente censura, sotto diversi profili, la sentenza impugnata, per avere dichiarato risolto il contratto per inadempimento dell’affittuaria.

Con i motivi settimo ed ottavo la ricorrente deduce, invece, l’erroneità della statuizione con la quale è stata dichiarata la inammissibilità della prova diretta a dimostrare che la realizzazione del manufatto, ritenuto inadempimento alla clausola n. 12 del contratto, era stata consentita verbalmente dall’amministratore della società concedente.

All’esame dei motivi, giova premettere che, nella specie, è stato accertato che l’affittuaria aveva realizzato, all’interno dell’area del centro sportivo, un manufatto poggiante su cordolo di cemento armato con sovrastanti sei pilastri in laterizio e tre pilastri in legno, dotata di una copertura in travi di castagno e di una tamponatura, da un solo lato, costituita da un muretto alto circa mt. 1,10.

Il Tribunale aveva ritenuto inammissibile la prova testimoniale dedotta dall’affittuaria al fine di accertare che la realizzazione del manufatto era stata autorizzata ed anzi richiesta dall’amministratore della società concedente:

- perché era tardiva la deduzione del fatto, che con la prova si voleva accertare, e perché tardiva era la stessa richiesta di prova;

- perché era generica;

- perché era inammissibile, stante il tenore dell’art. 12 del regolamento contrattuale, secondo cui la modifica dello stato dei luoghi era subordinata ad autorizzazione in forma scritta, da ritenersi prescritta ad substantiam, ai sensi dell’art. 1352 c.c.

Il Tribunale aveva, inoltre, ritenuto che l’inadempimento era di non scarsa importanza, atteso che l’intervento costruttivo era di entità non trascurabile, violava una specifica clausola contrattuale e concretava un illecito penale perché realizzato in assenza di autorizzazione amministrativa.

La Corte d’appello, nel respingere il motivo, con il quale era stata denunciata la violazione dell’art. 1455 c.c. e la erronea valutazione della importanza dell’inadempimento, dopo avere richiamato le ragioni esposte dal Tribunale – sopra sintetizzate – anche in relazione alla inammissibilità della prova testimoniale, osservò altresì che il raffronto tra l’opera realizzata dall’affittuaria senza il consenso della concedente, richiesto dall’art. 12 del contratto, e le altre opere che invece la stessa affittuaria si era obbligata a realizzare in base alla clausola n. 11 del medesimo contratto – raffronto richiesto dall’appellante al fine di dimostrare la esiguità dell’opera contestata in relazione agli interventi massicci che essa si era obbligata ad eseguire – non era determinante, poiché l’importanza dell’inadempimento era desumibile dal fatto che era stata espressamente prevista l’autorizzazione scritta per la realizzazione di qualsiasi opera diversa da quelle indicate nell’art. 11, la cui realizzazione costituiva un preciso obbligo per il conduttore.

La Corte d’appello rilevò inoltre che «l’abusività dell’opera appariva lesiva del diritto della società concedente al mantenimento della liceità urbanistica dell’intero immobile e della legittima aspettativa dei suoi soci ed amministratori a non sopportare il rischio di sanzioni o, comunque, di sottoposizione ad indagini e provvedimenti cautelari reali di carattere amministrativo o penale».

Ciò premesso, devono in primo luogo essere respinti i motivi settimo ed ottavo del ricorso, attinenti alla mancata ammissione della prova testimoniale.

Valgono due ragioni:

- la prima consiste nel fatto che, con l’atto di appello, la ricorrente si è doluta della mancata ammissione della prova da parte del primo giudice, omettendo tuttavia di censurarne le molteplici considerazioni svolte per ritenerla inammissibile, ma solo invocando i poteri officiosi del giudice;

- la seconda consiste nel fatto che le critiche della ricorrente sono esclusivamente dirette a rilevare la erroneità della decisione impugnata, per avere ritenuto l’inammissibilità della dedotta prova testimoniale, in conseguenza della necessità dell’assenso scritto richiesto dall’art. 12 delle pattuizioni contrattuali, senza tuttavia svolgere alcun argomento in ordine alla ritenuta applicabilità dell’art. 1352 c.c., richiamato implicitamente dal giudice d’appello, laddove si è riportato alla statuizione del primo giudice, che in applicazione della suddetta norma aveva, tra l’altro, dichiarato l’inammissibilità della prova testimoniale.

Fondati sono, invece, nel loro complesso i motivi dal terzo al sesto.

Come si è più sopra detto, la Corte d’appello ha ritenuto la gravità dell’inadempimento per due ragioni:

a) la prima fondata sul rilievo che l’affittuaria aveva realizzato un’opera edilizia senza il consenso scritto del concedente, richiesto da una specifica clausola contrattuale;

b) la seconda fondata sulla considerazione che «l’abusività dell’opera appariva lesiva del diritto della società concedente al mantenimento della liceità urbanistica dell’intero immobile e della legittima aspettativa dei suoi soci ed amministratori a non sopportare il rischio di sanzioni o, comunque, di sottoposizione ad indagini e provvedimenti cautelari reali di carattere amministrativo o penale», poiché il manufatto «necessitava di concessione urbanistica, trattandosi di struttura stabilmente infissa al suolo e non destinata ad un uso precario, sicché la sua abusiva realizzazione configurava il reato di cui all’art. 20 lett. b) della legge 28 febbraio 1985 n. 47».

Ora, con riferimento alla prima ragione, deve essere osservato che il rilievo della violazione di una clausola contrattuale ha valore e significato giuridico solo al fine di verificare se vi sia stato inadempimento, ma non costituisce di per sé motivazione in ordine alla non scarsa importanza dello stesso.

In sostanza, poiché le obbligazioni delle parti nascono o dalla disciplina generale applicabile al contratto o dalle regole particolari che, attraverso la disciplina concreta data al rapporto, le parti hanno concordato, l’accertamento che una di queste regole (generali o particolari) è stata violata, costituisce accertamento dell’inadempimento, ma non esime il giudice dalla successiva valutazione della non scarsa importanza dello stesso, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte, secondo quanto dispone l’art. 1455 c.c.

Pertanto, pur dovendo tenere presente che, con espressa pattuizione, era stato inibito all’affittuario di realizzare altre opere – oltre quelle previste nel contratto – senza il preventivo consenso del concedente, attenendo tale punto all’interesse generale del concedente preventivamente manifestato, il giudice di merito doveva comunque accertare se l’opera realizzata, ancorché eccedente i limiti delle innovazioni realizzabili, senza il consenso del concedente, comportasse un’alterazione dell’equilibrio giuridico ed economico del contratto, in relazione all’interesse attuale e concreto del concedente, di tale gravità da giustificarne la risoluzione.

In ordine allo specifico punto assumeva rilievo decisivo, al fine di valutare la non scarsa importanza dell’inadempimento, tra l’altro, la circostanza che il manufatto abusivamente realizzato era stato rimosso, come ricorda la ricorrente a pagina 13 del ricorso. La ricorrente aveva già fatto presente la circostanza nell’atto d’appello (v. pagina 17), nella quale si legge: «Quando è sorta la questione “tettoia” si è provveduto alla sua rimozione – come da documentazione fotografica allegata – ad ennesima dimostrazione di quanto già sostenuto: si trattava di opera facilmente rimovibile; due ore di lavoro ed infatti non c’è più»; ma tale circostanza è stata completamente ignorata dal giudice di secondo grado, che sul punto non ha svolto alcuna motivazione.

Con riferimento alla seconda ragione, addotta dal giudice di secondo grado per ritenere la non scarsa importanza dell’inadempimento, è da osservare che non è esatta l’affermazione secondo cui per effetto della realizzazione dell’opera abusiva da parte dell’affittuario il concedente proprietario sarebbe stato soggetto a sanzione penale.

Infatti, sia in relazione alla violazione dell’art. 20 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 (ora abrogato dall’art. 136, comma 2, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, a decorrere dal 30 giugno 2003, ai sensi dell’art. 3, d.l. 20 giugno 2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l. 1° agosto 2002, n. 185), sia in relazione alla violazione in precedenza prevista dall’art. 17 della legge 28 gennaio 1977 n. 10, la giurisprudenza della cassazione penale, è ormai orientata, dopo alcune iniziali oscillazioni, nel ritenere che «in materia edilizia non può essere attribuita ad un soggetto, per il solo fatto di essere proprietario di un’area, un dovere di controllo dalla cui violazione derivi una responsabilità penale per costruzione abusiva, atteso che tale qualità, pur potendo costituire un indizio grave, non è sufficiente da sola ad affermare la responsabilità, essendo necessario a tale fine rinvenire altri elementi, che non siano la semplice conoscenza che altri eseguano opere abusive sulla propria proprietà, in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia in qualche modo concorso, anche solo moralmente, con il committente o l’esecutore dei lavori abusivi» (v. da ultimo Cass. pen. sez. III, 25 febbraio 2003, n. 18756; e, in particolare per una ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale sul punto, Cass. pen. sez. III, 3 ottobre 2002, n. 38193).

In particolare, con riferimento alle opere abusive realizzate dal conduttore, ma la situazione non è diversa ove l’opera sia stata realizzata dall’affittuario di un complesso aziendale, la giurisprudenza è decisa nell’affermare che «Il locatore di un terreno non è responsabile neppure per colpa della costruzione senza concessione realizzata dal conduttore, per avere questi acquisito l’autonoma disponibilità dell’area interessata ed il relativo titolo per richiedere la concessione, la quale è data dal Sindaco, ai sensi dell’art. 4 della legge 28 gennaio 1977 n. 10, al proprietario ovvero in alternativa a chi appunto ne abbia titolo. Né può farsi carico al locatore di un obbligo di vigilanza sull’azione svolta sul suo terreno dal conduttore per la mancanza di un rapporto di subordinazione del secondo nei confronti del primo» (v. Cass. pen., sez. III, 18 dicembre 1993, n. 11602; Cass. pen. sez. III, 12 maggio 1994, n. 5625).

Né appare pertinente il richiamo, fatto dal giudice di secondo grado, alla generica applicabilità di provvedimenti cautelari reali di carattere amministrativo o penale, atteso che tali provvedimenti, peraltro resi in concreto inattuali in seguito alla volontaria demolizione dell’opera, avrebbero inciso esclusivamente sul singolo manufatto realizzato senza concessione, senza possibilità di interferenza sul complesso aziendale, alla cui integrità soltanto, avrebbe dovuto farsi riferimento per valutare l’interesse del concedente.

In conclusione, poiché la valutazione della non scarsa importanza dell’inadempimento da parte del giudice di secondo grado è in parte viziata sul piano logico, in parte omessa in ordine alla mancata valutazione di un elemento avente carattere di decisività ed in parte viziata sul piano giuridico, in accoglimento dei motivi di ricorso dal terzo al settimo, la decisione impugnata deve essere cassata sul punto, con rinvio ad altro giudice di pari grado che dovrà compiere una nuova valutazione dell’inadempimento della società affittuaria, al fine di verificare se ne ricorra la non scarsa rilevanza ai sensi dell’art. 1455 c.c..

Rimane assorbito il nono motivo, con il quale la ricorrente denuncia, violazione e falsa applicazione di norme di legge (art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.), assumendo, sulla premessa che nel giudizio di primo grado essa aveva svolto delle domande riconvenzionali, le quali erano stata respinte, e che di ciò essa si era doluta con l’appello, insistendo per la condanna della società appellata al risarcimento del danno, che la Corte d’appello su tale punto non «dice assolutamente nulla, né in dispositivo né in motivazione» e deducendo che «tanto inficia a sua volta sotto due profili: mancato risarcimento delle ingenti spese affrontate, con ingiusta locupletazione di controparte; mancata-errata valutazione della gravità dell’inadempimento. La sentenza dunque è viziata sul punto da illogicità».

P.Q.M.

La Corte di Cassazione, sezione terza civile, rigetta il primo ed il secondo motivo del ricorso, accoglie i motivi dal terzo al sesto, rigetta i motivi settimo ed ottavo, e dichiara assorbito il nono motivo.
Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Roma.
Così deciso il 4 novembre 2004.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 5 GEN. 2005.

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