Cassazione Civile, Sezione II, Sentenza 29 aprile 1993 n. 5064
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE II CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati: Dott. Filippo ANGLANI Presidente ” Vincenzo DI CIÒ Consigliere ” ” Antonio PATIERNO ” ” Mario SPADONE […]
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Filippo ANGLANI Presidente
” Vincenzo DI CIÒ Consigliere ”
” Antonio PATIERNO ”
” Mario SPADONE ”
” Vincenzo CALFAPIETRA Rel. ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
DG…; elettivamente domiciliato in Roma Via Faleria 20 c/o l’avvocato Agenore Schina che lo rappresenta e difende per delega a margine del ricorso.
Ricorrente
contro
CR e MA
Intimati
per la cassazione della sentenza n. 128 della Corte d’Appello di Roma del 2.12.1987-10.1.1988.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 5.6.1992 dal Cons. Rel. Dott. Calfapietra.
È comparso l’Avvocato Agenore Schina difensore del ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Udito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. Di Salvo che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Fatto
Con atto di citazione notificato il 23 dicembre 1976, DG convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, i coniugi CR e MA, ed affermò di essere proprietario di un appartamento e di due locali a piano terreno, con grotta ed annessa corte, nello stabile sito in Palestrina, alla via S. Pietro, 34, 36, e 37, nel quale trovavasi un appartamento di proprietà dei convenuti, sovrastante i due locali e la grotta ora menzionati; aggiunse che i predetti coniugi avevano abusivamente demolito alcuni muri perimetrali comuni, modificato l’aspetto architettonico dell’edificio ed eseguito manufatti in violazione delle distanze legali; per cui col predetto atto, chiede la loro condanna alla riduzione in pristino ed al risarcimento dei danni.
Nel costituirsi in giudizio, i coniugi CR e MA contestarono la domanda e ne chiesero il rigetto; spiegarono nel contempo domanda riconvenzionale, chiedendo la condanna del DG alla demolizione di una pensilina abusivamente costruita e al pagamento di una parte delle spese da loro sostenute per rifare una parte comune dello stabile.
Ammessa ed espletata una consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale, a conclusione del giudizio, con sentenza depositata il 2 aprile 1979, accolse la domanda attrice, condannò i convenuti ad arretrare il manufatto ad una distanza non inferiore a tre metri rispetto alla cucina e al ripostiglio del DG, a risarcirgli il danno da liquidare in separata sede; rigettò la domanda riconvenzionale.
CR e MA proposero impugnazione ed il contraddittorio si instaurò nuovamente davanti alla Corte d’appello di Roma, la quale dispose un supplemento della consulenza tecnica d’ufficio già espletata in primo grado. Dopo di ciò, a conclusione del giudizio, la Corte, con sentenza depositata il 20 gennaio 1988, accolse l’impugnazione, e, in totale riforma della sentenza del Tribunale, rigettò la domanda del DG per difetto di legittimazione attiva, accolse la domanda riconvenzionale dei coniugi CR e MA e condannò il DG a demolire la pensilina ed il pilastro costruiti in violazione delle distanze legali, nonché a pagare la somma di 1.650.000.lire a titolo di spese per il rifacimento di parte del tetto comune dell’edificio.
Contro la sentenza DG propone ricorso per cassazione a formula tre motivi d’impugnazione.
CR e MA non si sono costituiti in giudizio.
Diritto
1. Col primo motivo a sostegno dell’impugnazione il ricorrente denunzia violazione dell’art. 100 c.p.c. in relazione all’art. 360 primo comma n. 5 c.p.c., per insufficienza e contraddittorietà della motivazione sul punto decisivo della controversia costituito dalla sua legittimazione attiva, assumendo che la Corte di appello ha omesso di considerare che il vano cucina; riguardo al quale egli aveva chiesto il rispetto della distanza legale, non ricadeva su terreno di proprietà comunale, e che l’appartenenza delle varie particelle catastali interessate all’ampliamento del fabbricato era circondata da dubbi e non aveva formato oggetto di approfondita indagine.
La censura è fondata.
Come risulta dalla sentenza impugnata, la Corte di merito ha rilevato dalla relazione del consulente tecnico d’ufficio, che DG, nell’ampliare la propria casa creando, in aggiunta al preesistente edificio, altri vani, aveva occupato con la nuova costruzione, e precisamente con un ambiente di passaggio, un bagno, parte di un vano cucina ed un ripostiglio, una parte di un confinante terreno di proprietà comunale, contraddistinto in catasto con la particella 322; una parte della predetta nuova cucina risultava invece costruita sul terreno contraddistinto con la particella 644, di proprietà del DGi.
Dopo aver ciò rilevato, la Corte ha ritenuto che mancava, in capo al DG, la legittimazione attiva a proporre la domanda di demolizione delle opere effettuate dai coniugi CR e MA e quella di risarcimento del danno per il mancato rispetto delle distanze legali, affermando che, per il principio dell’accessione, enunciato dall’art. 934 c.c., “la costruzione anzidetta”, senza distinguere tra le sue parti, “appartiene al Comune di Palestrina, quale proprietario del terreno sul quale la costruzione è stata eseguita”. Da ciò la necessità del rigetto delle domande proposte dal DG.
La violazione di legge e la contraddittorietà della motivazione in cui è incorsa la decisione impugnata appaiono evidenti se si considera l’avvenuto accertamento della titolarità del diritto posto a fondamento dell’azione esercitata dal DG quanto meno relativamente ad una parte del vano cucina costruito ex novo, cioè proprio di quel vano rispetto al quale era stata accertata dal Tribunale, per mezzo del consulente tecnico d’ufficio, l’avvenuta costruzione, ad opera dei coniugi CR e MA, di un muro a distanza inferiore a quella legale.
La sentenza di secondo grado va, pertanto, su questo punto cassata, con rinvio ad altro giudice.
2. Col secondo motivo il ricorrente denunzia violazione dell’art. 907 c.c. in relazione all’art. 360 primo comma n. 5 c.p.c. per omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, costituito dall’esistenza o meno del diritto dei coniugi CR e MA a tenere aperta la veduta rispetto alla quale era stata ritenuta l’illegalità della sua pensilina.
La censura è infondata.
Come si rileva dalla sentenza impugnata e dalle conclusioni, ivi riportate, formulate dall’odierno ricorrente, è rimasto estraneo al “thema decidendum” il titolo giuridico attinente alla veduta aperta dai coniugi CR e MA, per la quale i coniugi stessi avevano richiesto, in via riconvenzionale, la verifica dell’osservanza delle distanze legali rispetto alla pensilina costruita dal DG; motivo per cui non può condividersi l’assunto del ricorrente in ordine alla necessità di un tale accertamento, considerato che, per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, l’obbligo del proprietario=costruttore di fabbricare a distanza non minore di tre metri dalle vedute esistenti nell’edificio vicino riguarda sia la situazione di chi eserciti il diritto di veduta “iure proprietatis ” sia quella di chi lo eserciti “iure servitutis”.
La censura va pertanto disattesa.
3. Col terzo motivo il ricorrente denunzia violazione dell’art. 1101 c.c. in relazione all’art. 1123 c.c., ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., assumendo che la Corte d’appello, nel condannarlo al pagamento della metà delle spese occorse per il rifacimento del tetto comune, non ha tenuto in alcun conto il fatto che il suo rifacimento era la conseguenza dell’ampliamento operato dai coniugi CR e MA, e che comunque la ripartizione delle spese non era avvenuta in relazione al valore delle singole proprietà coperte dal tetto comune.
La prima parte della censura relativa alla natura necessaria o meno delle spese affrontate dai coniugi CR e MA per il rifacimento del tetto, in relazione alla loro connessione o meno con l’ampliamento del proprio fabbricato da loro operato, è motivo nuovo, prospettato per la prima volta in sede di legittimità, ed è pertanto inammissibile.
La censura è invece fondata nel resto.
La Corte di merito, infatti, ha accertato che il DG era proprietario esclusivo di un locale sottostante all’appartamento dei coniugi CR e MA, per cui il tetto che copre quest’ultimo era comune ad entrambe le parti in causa; per tale ragione la spesa occorsa per il suo rifacimento doveva gravare su entrambi i comproprietari in eguale misura, in base alla norma di cui all’art. 1101 c.c., non risultando una diversa entità delle due quote.
Il caso di specie andava invece risolto con l’applicazione della disciplina dettata in materia di ripartizione di spese dalle norme che regolano più specificamente il condominio negli edifici, con particolare riferimento a quelle parti, come il tetto, che sono destinate a servire in maniera eguale ed indifferenziata i vari piani dell’immobile. Posto, infatti, che in base all’art. 1104 c.c. ciascun partecipante deve contribuire alle spese necessarie per la conservazione della cosa comune, dette spese, quando riguardano una delle parti comuni suddette, tra quelle indicate nell’art. 1117 c.c., sono sostenute, in base all’art. 1123 c.c., in ragione della quota di ciascun condomino su di essa, quota che è proporzionata al valore del piano o porzione di piano appartenente a ciascuno in via esclusiva (salva diversa convenzione che nel caso di specie non ricorre): la deroga legislativa al principio di eguaglianza enunciato dall’art. 1101 c.c., attuata con l’adozione del principio di proporzionalità, si spiega e giustifica considerando la funzione strumentale delle parti comuni dell’edificio in condominio rispetto alle parti in proprietà esclusiva dei singoli condomini, delle quali esse sono al servizio, consentendone l’esistenza e l’uso.
Il terzo motivo di ricorso va pertanto accolto per quanto di ragione.
In conclusione, la sentenza impugnata va cassata, in relazione ai motivi accolti, e la causa rinviata, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte d’appello di Roma
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso (quest’ultimo per quanto di ragione), rigetta il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte d’appello di Roma.
Così deciso in Roma, il 5 giugno 1992.