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Federproprietà AbruzzoVizi di CostruzioneCassazione Civile, Sezione II, Sentenza 12 maggio 2003 n. 7273

Cassazione Civile, Sezione II, Sentenza 12 maggio 2003 n. 7273

L'appaltatore è responsabile per i vizi di costruzione dell'edificio, ma il committente può essere chiamato a rispondere per i suddetti vizi? Se sì, in che casi?

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Franco PONTORIERI – Presidente -
Dott. Giandonato NAPOLETANO – Consigliere -
Dott. Vincenzo COLARUSSO – Rel. Consigliere -
Dott. Carlo CIOFFI – Consigliere -
Dott. Lucio MAZZIOTTI DI CELSO – Consigliere -

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

S SPA, in persona del Direttore Generale Dott. Ing. ROBERTO BARILLI, elettivamente domiciliato in ROMA VIA SCIALOJA 6, presso lo studio dell’avvocato LUIGI OTTAVI, che lo difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE COLIVA, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

PMa, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DI S.MARIA MAGGIORE 112, presso lo studio dell’avvocato ALDO DI LAURO, che la difende unitamente all’avvocato SALVATORE DE BONIS, giusta delega in atti;

- controricorrente -

nonché contro

CC SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore Dott. Marco BURIANI, elettivamente domiciliato in ROMA VIA PANAMA 88, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO SPADAFORA, che lo difende, giusta delega in atti;

- controricorrente -

nonché contro

ML, in qualità di curatore dell’eredità giacente di FA, FR, SC, quali eredi di FG;

- intimati -

avverso la sentenza n. 841-99 della Corte d’Appello di BOLOGNA, depositata il 15-07-99;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09-01-03 dal Consigliere Dott. Vincenzo COLARUSSO;
udito l’Avvocato COLIVA Giuseppe, difensore del ricorrente che ha chiesto accoglimento;
udito l’Avvocato SPADAFORA Giorgio, (per COSTRUZIONI CC SPA) difensore del resistente che ha chiesto rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Libertino Alberto RUSSO che ha concluso per rigetto del ricorso.

Fatto

Il giorno 16.5.1988, in Vergato, il muro di sostegno di un terrapieno, nel corso di un violento temporale, crollò investendo la passante PMa che riportò gravi lesioni.

La PMa chiese ed ottenne dal Presidente del Tribunale di Bologna sequestro conservativo sui beni di FG e SC, proprietari del muro unitamente a FA e LG che venivano poi citati in giudizio innanzi allo stesso Tribunale dalla PMa che instava per la loro condanna al risarcimento dei danni.

Non si costituiva il LG. Si costituivano il FR, la SC ed il FA che chiedevano il rigetto della domanda. Costoro facevano presente che tra l’autunno del 1986 e l’autunno del 1987 la società AS aveva effettuato, tramite la Cooperativa E e la S.r.l. CC, opere di scavo per la posa in opera di tubazioni di metano ed, in particolare, era stato eseguito uno scavo profondo lungo la Via Serini, più alta rispetto al muro, e sulla strada vicinale ad esso retrostante, scavi che erano stati successivamente ricoperti. Verificatesi delle infiltrazioni di acqua nella parte interrata del loro fabbricato, la AS aveva fatto costruire un lavoro di drenaggio per lo scolo delle acque sotterranee mediante l’affossamento di tubi di incanalamento delle acque, che attraversavano Via Serini, tutto il terreno ed il muro; lo scavo era stato poi ricoperto con terreno senza asfaltatura, sicché il muro era crollato sotto la spinta del terreno.

All’uopo utilizzati, chiamavano in causa le predette società che si costituivano in giudizio. La AS sosteneva che il crollo era dovuto a carenze statiche della struttura e alla inidoneità delle opere di drenaggio realizzate dalla proprietà, mentre le opere da essa svolte erano state eseguite a regola d’arte ed, in ogni caso, il temporale si poneva come evento eccezionale ed imprevedibile.

Analoga tesi era sostenuta dalla S.r.l. CC, mentre la E chiedeva il rigetto della domanda ed, in subordine, esercitava azione di regresso nei confronti della CC.

Il Tribunale riconosceva tutti i convenuti responsabili del sinistro in solido con la AS e la società CC e quantificava la percentuale di responsabilità dei primi nella misura del 20% mentre quella di ciascuno dei secondi nella misura del 40% e li condannava, sempre in solido, al risarcimento dei danni nella complessiva misura di 706.500.000, rigettando la domanda nei confronti delle E.

Avverso la sentenza proponevano separate impugnazioni FR, erede di FG, e SC, in proprio e quale erede del marito FG, PMa, la S.p.A. S già AS) e la CC S.a.s..

Non si costituivano FA e LG mentre la E S.r.l. faceva presente di essere stata dichiarata fallita prima della notifica dell’atto di appello sì che ne veniva disposta la notifica al Curatore.

La Corte di Appello di Bologna con sentenza del 5.3. – 15.7.1999 ha dichiarato la S.p.a. S, già AS, e la S.r.l. Costruzioni CC tenuti in solido e condannati con FR, nella qualità, SC, in proprio e nella qualità, e FA, al pagamento in favore della PMa della somma di L. 656.500.000, così riducendo il danno.

La Corte ha ritenuto che tutti costoro fossero a vario titolo responsabili del danno prodotto dalla caduta del muro.

Per i proprietari, esattamente era stata applicata la presunzione di cui all’art. 2053 c.c. non vinta dalla prova contraria dell’esistenza del caso fortuito o della forza maggiore, essendo, peraltro, il muro di sostegno costruito in maniera del tutto precaria.

La S (già AS) aveva fatto eseguire i lavori di scavo per il metanodotto che avevano comportato problemi di infiltrazioni ai quali si era ovviato col drenaggio eseguito dalla Soc. Comuli, lavori che, soprattutto per la mancata asfaltatura, la permeabilità dello scavo e la interruzione del compattamento del muro, avevano perturbato la coesione fisica del contesto ed avevano contribuito al crollo.

In particolare la CC era responsabile per le scelte tecniche adottate di comune accordo con la committente AS – S La Corte, in accoglimento dell’appello incidentale della PMa, ha ancora ritenuto che la domanda attrice si era, per la parte di loro responsabilità, estesa automaticamente ai chiamati in causa senza necessità di espressa istanza.

Avverso detta sentenza ricorre per cassazione la S.p.a. S (ex AS) con due motivi illustrati da memoria.

Resistono con controricorso PMa e la CC S.r.l. che presentano memorie.

Le parti hanno presentato memorie.

All’udienza del 18.6.2002 questa Corte disponeva la integrazione del contraddittorio nei confronti del FA ed a tanto ha provveduto la ricorrente nel termine stabilito notificando l’atto di integrazione del contraddittorio al curatore della eredità giacente del Fraschi, che non svolge attività difensiva.

Diritto

Nel primo motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2049 c.c. nonché insufficiente e contraddittoria motivazione, sostiene che quella che i consulenti avevano chiamato cause esterne (diverse dalle caratteristiche costruttive del muro) erano da attribuirsi alla società appaltatrice CC che, dotata delle necessarie capacità tecniche, aveva effettuato i lavori in piena autonomia tecnica ed organizzativa e che altrettanto era a dirsi dei tempi di realizzazione che la stessa Corte bolognese aveva ritenuto concausa del crollo ed aveva attribuito alla sola CC, così contraddicendosi nel momento in cui aveva attratto anche la committente nella responsabilità.

Il motivo non è fondato.

Deve premettersi, in materia di appalto, l’appaltatore esplica l’attività che conduce al compimento dell’opus perfectum o alla prestazione del servizio, in piena autonomia, con propria organizzazione ed a proprio rischio, apprestando i mezzi adatti e curando le modalità esecutive per il raggiungimento del risultato.

Ciò esclude, in linea di principio, non solo ogni rapporto institorio tra committente ed appaltatore (Cass. SS.UU. n. 800-73; Cass. 10652-97) ma implica anche che solo l’appaltatore debba, di regola, ritenersi responsabile dei danni derivati e terzi nella (o dalla) esecuzione dell’opera.

Questo principio connesso alla struttura del contratto di appalto soffre, tuttavia, eccezioni sia quando si ravvisino a carico del committente specifiche violazioni del principio del neminem laedere riconducibili all’art. 2043 c.c. (e tale potrebbe essere il tralasciare del tutto ogni sorveglianza nella fase esecutiva nell’esercizio del potere di cui all’art. 1662 c.c.), sia quando l’evento dannoso gli sia addebitabile a titolo di culpa in eligendo per essere stata affidata l’opera ad impresa che palesemente difettava delle necessarie capacità tecniche ed organizzative per eseguirla correttamente, sia quando l’appaltatore, in base ai patti contrattuali o nel concreto svolgimento del contratto, sia stato un semplice esecutore di ordini del committente e privato della sua autonomia a tal punto da aver agito come nudus minister di questi, sia, infine, quando il committente si sia, di fatto, ingerito con singole e specifiche direttive nelle modalità di esecuzione del contratto o abbia concordato con l’appaltatore singole fasi o modalità esecutive dell’appalto (Cass. 8086-2000; Cass. 1284-97; Cass. 10632-97; Cass. 11566-97). In tutti questi casi il committente potrà essere tenuto come responsabile, in via diretta, con l’appaltatore per i danni cagionati al terzo.

Ciò premesso, la ricorrente S, nel primo motivo, dapprima riduce le cause del crollo ai soli vizi di costruzione del muro, staticamente inidoneo, e, poi, limita l’individuazione di quelle esterne alle sole “lungaggini ed indugi ed alla mancata asfaltatura” che sarebbero addebitabili alla CC e che immotivatamente sarebbero state poste a base della responsabilità di essa committente.

Sennonché la Corte di merito, al contrario, ha: a) innanzitutto affermato che dalla prova testimoniale era emerso che le scelte tecniche erano state adottate di comune accordo tra la S e la CC (sent. pag. 30 – 31); b) che le cause del crollo – ribaltamento del muro non erano limitate ai ritardi ed alla mancata asfaltatura “in sè per sè considerata” bensì si estendevano alla “interruzione del compattamento a seguito degli eseguiti interventi, stravolgimento che ha permesso di rendere lo scavo più permeabile e, quindi, attaccabile dagli agenti esterni” (sent. pag. 32) e che le cause del crollo potevano essere, riassuntivamente, connesse al “perturbamento artificiale trasmesso (al muro n.d.e.) dalle manovre per l’impianto del metanodotto…”, “le sconnessioni prodotte nel terrapieno”; c) che la committente S era obbligata “a controllare la corretta esecuzione dei lavori anche dal punto di vista delle tempestività delle opere commissionate”: ebbene, gli indugi e le lungaggini avevano lasciato “aperte ed indifese le trincee” permettendone “prima la permeazione e poi l’irruenza della corrente devastatrice”.

Quindi, la sentenza, quanto alle cause del crollo, rammostra una ratio decidendi ben più complessa ed articolata rispetto a quella semplicisticamente prospettata nel motivo e, quindi, la doglianza in esso formulata, per essere ispirata ad una lettura solo parziale della motivazione, non può, già per questo, trovare accoglimento e va anche respinta poiché tralascia del tutto di censurare specificamente: 1) l’addebito di colpa per il profilo dell’omesso controllo dei tempi di realizzazione che ebbero non poca incidenza causale sull’evento secondo il giudice di merito, il quale ha annoverato tra i doveri del committente, quello di porvi rimedio (supra sub c)); 2) la ravvisata incidenza nell’evento del crollo di una serie convergente di fattori causali come sono stati evidenziati sub c); 3) l’accordo tra committente ed appaltatore nelle scelte tecniche ed operative nell’esecuzione dei lavori di drenaggio, come ravvisato dal giudice di merito, con la conseguente riferibilità delle scelte stesse anche al committente, ragione, questa, da sola sufficiente per attrarre la S nelle responsabilità per la fase esecutiva, in base delle regole sulla ingerenza del committente enunciati in premessa.

Nel secondo motivo si deduce violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c. sul rilievo che erroneamente la Corte bolognese avrebbe esteso automaticamente la domanda direttamente nei suoi confronti sul presupposto, errato, che la chiamata in causa formulata dai convenuti fosse rivolta all’affermazione della esclusiva responsabilità dei terzi chiamati, con esclusione della loro che, invece, era stata dalla Corte espressamente ritenuta in via solidale. Ne conseguiva che la estensione, nell’atto di appello, della domanda nei confronti dei terzi chiamati che avevano al riguardo rifiutato il contraddittorio, realizzava la violazione delle norme processuali citate in rubrica.

Anche questo motivo è infondato.

La lamentata erroneità della impostazione giuridica della Corte di Appello non può essere denunciata secundum eventum litis per il fatto che – assunta dai chiamanti la responsabilità esclusiva dei chiamati – questa tesi non sia stata accolta e sia, invece, stata ritenuta la responsabilità concorrente e solidale anche dei primi.

L’esito decisorio sulla chiamata in causa, infatti, non esclude che la valutazione circa l’estensione della domanda debba essere fatta – come in effetti è stata fatta, (e come ha sostenuto la Corte senza specifica censura al riguardo) – secondo la prospettazione iniziale.

La Corte, cioè, ha affermato (pag. 28 della sentenza) che la domanda del convenuto si estende direttamente al terzo chiamato senza necessità di apposita istanza quando la chiamata in causa sia rivolta a sentire affermare la esclusiva responsabilità del terzo (ovviamente a prescindere dal fatto che tale responsabilità sia poi riconosciuta o meno in via esclusiva dal giudice). In tal caso, secondo la Corte, si esula dalla c.d. garanzia impropria. Tutto questo ragionamento non solo non ha ricevuto espressa censura ma è anche giuridicamente corretto.

Ed, infatti, le sentenze al riguardo richiamate dalla ricorrente non sono calzanti perché esse si riferiscono a casi di responsabilità solidale “ab origine” per i quali, nel caso in cui uno dei debitori solidali evocato in giudizio per l’adempimento chiami in causa altro(i) condebitore(i), tale chiamata si assimila alla garanzia impropria poiché basata su titolo diverso, costituito dal vincolo derivante dal rapporto interno tra i debitori solidali, mentre nel caso in cui il convenuto in azione risarcitoria chiami in giudizio un terzo indicandolo come l’unico responsabile tenuto a rispondere della pretesa dell’attore, la domanda di questi si estende automaticamente al terzo senza bisogno di apposita istanza poiché il giudizio verte sulla individuazione del vero ed unico responsabile sulla base di un rapporto (obbligazione ex illicito) oggettivamente unico (Cass. 1898-84; 3474-99; 11855-98).

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente alle spese nei confronti della controricorrente PMa, liquidate come nel dispositivo.

Soccorrono, invece, giusti motivi per disporre la compensazione delle spese tra la ricorrente e la S.r.l. CC.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese in favore della PMa, liquidate in complessivi euro 4.119,70 di cui euro 4.000 (quattromila) per onorario; compensa le spese tra la ricorrente e la S.r.l. CC.

Così deciso in Roma addì 9 gennaio 2003 nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione.

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