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Federproprietà AbruzzoCanoneCassazione Civile, Sezione III, Sentenza 07 luglio 2010,n. 16009

Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza 07 luglio 2010,n. 16009

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. VARRONE Michele – Presidente - Dott. TALEVI Alberto – Consigliere - Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere […]

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VARRONE Michele – Presidente -
Dott. TALEVI Alberto – Consigliere -
Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere -
Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere -
Dott. D’AMICO Paolo – rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

D.B.L., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA  APPIA NUOVA 251, presso lo studio dell’avvocato SARACINO MARIA,

rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONUCCI FERNANDO giusta delega a margine del ricorso;

- ricorrente -

contro

C.A., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA ORAZIO MARUCCHI 5, presso lo studio dell’avvocato CIRO, rappresentata e difesa dall’avvocato CHIONCHIO MATTEO, con studio in 71100 FOGGIA, Viale Michelangelo 87, giusta delega a margine del controricorso;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 978/2005 della CORTE D’APPELLO di BARI,Terza Sezione Civile, emessa il 12/10/2005, depositata il 18/10/2005; R.G.N. 1423/03.
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 28/04/2010 dal Consigliere Dott. ALBERTO TALEVI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo che ha concluso per accoglimento 7 motivo, rigetto nel resto.

Fatto

Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

C.A., ex conduttrice di immobile per uso abitativo in (OMISSIS), il 23 marzo 2001 adiva il Tribunale di Foggia per la determinazione dell’equo canone e la condanna di D.B.L., proprietaria e locatrice dell’immobile, alla restituzione delle differenze eccedenti con rivalutazione ed interessi. Si costituiva in giudizio la convenuta che resisteva al ricorso. Istruita la causa, il Tribunale, con sentenza n. 1479/03, determinava l’equo canone secondo quanto indicato nella c.t.u. del geom. C.R. e condannava la D.B. a corrispondere alla C., conformemente alle risultanze peritali, la differenza finale di Euro 5089,00 oltre interessi legali dal 1^ gennaio 2001.

Appellava la D.B. deducendo cinque motivi, ai quali la C. resisteva con memoria. Negata l’inibitoria (ord. coll. 9/10/2003, pres. est. Montaruli) e concessi termini per le difese scritte, la causa è stata decisa all’udienza odierna con pubblica lettura del dispositivo”.

Con sentenza 12 – 18 ottobre 2005 la Corte di Appello di Bari provvedeva come segue:

“… definitivamente decidendo, rigetta l’appello, avverso la sentenza del Tribunale di Foggia n. 1479/03, proposto da D.B.L. nei confronti di C.A.; compensa per intero le spese del grado”.

Contro questa decisione ha proposto ricorso per Cassazione D.B.L. (che ha anche depositato memoria).

Ha resistito con controricorso C.A..

Diritto

Contrariamente a quanto assume la controricorrente (la quale afferma che il ricorso non è stato notificato nel domicilio eletto nel giudizio di appello e che la notifica è stata effettuata da ufficiale giudiziario incompetente), non sussistono gli estremi per dichiarare improcedibile il ricorso (anzitutto in considerazione proprio della sussistenza del controricorso in cui dette tesi sono state esposte; cfr. tra le altre, per una fattispecie non uguale ma assimilabile: Cass. n. 16578/08, e con specifico riferimento all’ipotesi di incompetenza dell’Ufficiale Giudiziario: Cass. Sentenza n. 15372 del 06/07/2006: “In tema di notificazioni, l’incompetenza per territorio dell’ufficiale giudiziario procedente costituisce motivo di semplice nullità relativa all’atto, con conseguente ammissibilità della relativa sanatoria (nella specie, realizzatasi per effetto della presentazione del controricorso”).

Con il primo motivo la ricorrente D.B.L. denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, con omessa o insufficiente motivazione su punto proposto dall’appellante e decisivo della controversia” esponendo doglianze da riassumere nel modo seguente. La Corte ha rigettato il motivo di gravame circa la dedotta la nullità della sentenza di primo grado, dichiarando che “qualora la sentenza non motivi il rigetto delle conclusioni rese dalle parti è configuratale un vizio di motivazione, e non la nullità per omessa pronuncia”. La Corte però non ha tenuto conto che il primo giudice in realtà, con una motivazione relativa alla sola domanda attorea, ha mostrato di aver esaminato solo la consulenza tecnica di ufficio, ignorando totalmente tutte le eccezioni sollevate dalla convenuta, sia in ordine alla domanda che in ordine alla ritualità della C.T.U.. Ciò era motivo di nullità della sentenza, per difetto assoluto del requisito essenziale della motivazione.

Si chiede quindi che l’adita Corte di Cassazione statuisca se la omessa pronuncia sulle eccezioni svolte da una parte del processo configuri o meno violazione dell’art. 132 c.p.c..

Il motivo è inammissibile (per genericità; poichè manca una rituale indicazione delle eccezioni in questione; il che era necessario, tra l’altro, pure per valutare l’interesse all’impugnazione) prima ancora che privo di pregio (poichè correttamente il Giudice del gravame ha ritenuto la non configurabilità della nullità ex art. 132 cit.).

Con il secondo motivo la ricorrente D.B. denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c., richiamato dall’art. 447 bis c.p.c., e omessa o insufficiente motivazione su punto proposto dall’appellante e decisivo della controversia, esponendo doglianze da riassumere nel modo seguente. La richiamata norma prevede che il ricorso debba necessariamente contenere la determinazione dell’oggetto della domanda e le ragioni di fatto e di diritto sulle quali si fonda. La Corte ha ritenuto sussistenti tali requisiti, in quanto, pur non essendo stato notificato alcun conteggio insieme al ricorso, quest’ultimo richiamava una consulenza di parte allegata al fascicolo, contenente in dettaglio i canoni dovuti dal 1978 in poi. Tale conclusione della Corte di Bari è però errata, in quanto, poichè il ricorso non conteneva assolutamente alcuna indicazione nè sui canoni versati, nè su quelli dovuti, nè sulla differenza pretesa dalla ricorrente, e la consulenza tecnica si rivelava insufficiente per la determinazione della domanda, in quanto conteneva solo la indicazione dei canoni dovuti (equo canone), sicchè restava totalmente carente qualsiasi riferimento ai canoni versati nel corso degli anni dalla C.. Ed il detto C.T.U. ha dovuto richiedere (alquanto irritualmente) ulteriori dati alla C., la quale gli ha successivamente consegnato tutte le ricevute di pagamento, consentendogli solo in tal modo di determinare le somme versate. La convenuta non è stata posta in condizioni di conoscere l’ammontare della richiesta attorea, non potendo quindi utilmente esercitare il suo diritto di difesa (la convenuta avrebbe anche potuto aderire alla domanda, o restare contumace).

Si chiede quindi che la lacerna Corte chiarisca se la specificazione del petitum, richiesta a pena di nullità del ricorso dall’art. 414 c.p.c., debba riguardare anche la quantificazione della richiesta attorea, ancorchè rilevabile attraverso l’esame complessivo della domanda (nel caso di specie tuttavia impossibile), e se la successiva produzione documentale possa addirittura, con efficacia ex lune, sanare la iniziale nullità del ricorso.

Il motivo è privo di pregio.

Infatti la decisione della Corte di merito ha fondato la decisione sul punto su argomentazioni corrette sia dal punto di vista logico (ha tra l’altro implicitamente ritenuto che, anche in assenza di indicazioni della controparte, D.B.L., in quanto locatrice, ben doveva conoscere l’ammontare dei canoni che in concreto erano stati pagati; con conseguente impossibilità di ipotizzare una violazione dei diritti difensivi dell’attuale ricorrente, sulla base della normativa processuale in questione) che dal punto di vista giuridico.

Con il terzo motivo la parte ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 101 e 194 c.p.c. e art. 90 disp. att. c.p.c., con violazione del principio del contraddittorio e nullità della C.T.U. proponendo censure da riassumere come segue. Come detto, il C.T.U., invece di rimettere gli atti al Tribunale, ha chiesto ragione di quanto sopra alla ricorrente. Quest’ultima ha quindi inoltrato al medesimo C.T.U. una richiesta di proroga delle operazioni peritali (al C.T.U. e non al Giudice), e quindi ha rimesso a medesimo ben 120 ricevute di pagamento di tutte tali vicende, la D.B. non è stata in alcun modo messa al corrente, e le ha apprese solo dopo l’esame della C.T.U. e dei relativi verbali. Su tali documenti non si e mai instaurato il contraddicono, ne la esponente è stata mai messa in condizioni di interloquire o disconoscere tali ricevute. La nullità della C.T.U. è stata prontamente eccepita alla prima udienza utile, ma non è stata ravvisata dai giudici di merito, i quali hanno erroneamente richiamato precedenti giurisprudenziali della Corte di legittimità, riguardanti poteri investigativi del CTU, in ordine alla possibilità di acquisire documenti e notizie aliunde, senza autorizzazione del giudice. Si chiede quindi che la lacerna Corte statuisca se le operazioni peritali, svolte con una sola parte del giudizio senza che la parie avversa ne abbia notizia siano affette da nullità.

Il motivo e inammissibile (poichè la parte ha omesso di chiarire quali reali suoi diritti difensivi siano stati in concreto lesi; in particolare non ha neppure affermato che il contenuto dei documenti in questione non rispondeva a verità) prima ancora che infondato (dato che i vizi lamentati non sussistono).

Con il quarto motivo di ricorso la parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, art. 25, ed omessa o insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia, prospettato dall’appellante, esponendo doglianze da riassumere come segue. Il C.T.U. ha ridotto il coefficiente di vetustà ad ogni rinnovo contrattuale, e ciò senza, che vi fosse mai stata, nel corso del lungo rapporto locatizio, mai alcuna richiesta in tal senso da parte della conduttrice. Sicchè ogni 4 anni il canone di locazione ripartiva da una base via via sempre più ridotta. In tal modo il canone ultimo (anno 2000) di L. 380.000 mensili (190,00 Euro), per un appartamento di oltre 120 mq in zona centrale a (OMISSIS), è risultato eccessivo, nonostante i ben diversi canoni di mercato correnti in tale epoca, la L. n. 392 del 1978, art. 25, prevede però che il coefficiente di vetustà possa essere modificato ad ogni rinnovo contrattuale, ma solo previa richiesta da parte del conduttore, da formalizzare a mezzo lettera raccomandata. La indispensabilità della richiesta da parte del conduttore è stata già affermata dalla S.C. (Cass. 25.9.98 n. 9593), ma non e stata condivisa dalla Corte di Bari, la quale ha peraltro affermato che tale principio non trova applicazione nel caso in cui il canone di locazione corrisposto sia superiore a quello legale (equo), come appunto ne caso in questione. Tale conclusione però non è condivisibile, in quanto quella di cui all’art. 25 è una mera facoltà, sicchè l’esercizio della stessa deve essere utilizzato in tempo utile il locatore non può certamente consentire ben 5 rinnovi contrattuali (come nel caso di specie), e poi vedersi esposto a riduzioni di un canone che è perfettamente legale, e cioè svincolato da revisioni del coefficiente di vetustà, che erano meramente facoltative. Nel caso di specie peraltro, non solo non vi è la prova della pretesa, da parte della locatrice, di un canone superiore a quello legale, ma addirittura vi è la prova del fatto che per i primi sei anni (1978-1983) il canone di locazione versato era notevolmente inferiore a quello dovuto (equo), sicchè il principio enunciato dalla Corte di Bari, oltre che errato, è inapplicabile al caso in questione, in quanto il canone versato era non solo legale, ma addirittura inferiore a quello equo. Si chiede quindi che la Ecc.ma Corte stabilisca se la revisione del coefficiente di vetustà, in occasione dei rinnovi contrattuali, sia subordinala o meno alla richiesta a mezzo raccomandata da parte del conduttore.

Il motivo non può essere accolto.

E’ infatti esatto che “L’adeguamento del canone alla scadenza quadriennale in base ai coefficiente di vetustà, previsto dalla L. n. 392 del 1978, art. 25, è subordinato alla richiesta falla dalla parte” (Cass. Sentenza n. 9593 del 25/09/1998).

Ma è anche da considerare che tale principio di diritto deve ritenersi valido solo nel caso sia stipulato un contratto di locazione conforme alla normativa sul punto.

Qualora invece sia stato (coscientemente e volontariamente da entrambe le parti) stipulato un contratto che viola detta normativa in quanto prevede un canone superiore a quello legale ed il conduttore poi chieda la determinazione dell’equo canone, la soluzione non può essere uguale. Infatti in tal caso entrambe le parti, nel corso del rapporto, hanno tenuto un comportamento che non poteva non tenere conto della non legalità del canone.

Ed anche qualora la non conformità al canone equo non sia stata volontaria, l’entità del canone in concreto pagato può aver indotto una od entrambe le parti a non chiedere di usufruire della possibilità offerte dagli artt. 24 (aggiornamento del canone) e/o art. 25 (adeguamento del canone).

In particolare, il locatore può essersi indotto a non chiedere gli aumenti ISTAT in quanto comunque il canone in concreto convenuto era superiore all’equo canone aggiornato (cfr. tra le altre Cass. 3, Sentenza n. 2141 del 31/01/2006: “In tema di locazione degli immobili urbani, qualora le parti abbiano pattuito un canone convenzionale ed il conduttore successivamente richieda la determinazione di quello “equo”, questo deve essere calcolato con gli aggiornamenti ISTAT anche se non richiesti espressamente dal locatore, in quanto già compresi nel maggior canone pattiziamente convenuto”); ed il conduttore può aver omesso di richiedere gli aggiornamenti (a lui favorevoli) del canone L. n. 192 del 1978, ex art. 24 (e tra l’altro ad es la modifica del parametro relativo alla vetusta in occasione del rinnovo contrattuale) volendo per il momento evitare che la controparte desse la disdetta del contratto alla prima scadenza utile (con la riserva di usufruire poi della facoltà di ripetere le somme pagate in più ai sensi della L. cit., art. 79, comma 2).

Una volta però che il Giudice sia chiamato a decidere quale sia l’equo canone e quindi quali siano i rapporti legali di dare ed avere tra locatore e conduttore (modificando dunque in concreto – questo è il punto – i rapporti economici sino a quel momento intercorsi tra te parti), appare conforme all’intento del Legislatore eseguire i computi in questione considerando non il comportamento che le parti hanno in concreto tenuto (in considerazione dell’entità del canone in concreto pagato); ma quello che avrebbero (quasi) certamente tenuto nell’ambito di un rapporto giuridico conforma a legge sin dall’inizio.

Sembra dunque conforme a tale intento eseguire detto computo come se entrambe le parti avessero (tempestivamente e validamente) chiesto di usufruire delle possibilità offerte dai predetti artt. 24 e 25 (salvo che venga data la prova di una volontà contraria della parte della cui richiesta si tratta).

La tesi della parte ricorrente e dunque priva di pregio.

Con il quinto motivo D.B.L. denuncia “violazione e falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, art. 13″ esponendo doglianze da riassumere come segue. Il C.T.U. non ha calcolato, nella superficie convenzionale dell’immobile locato, nè l’androne condominiale, nè l’ascensore e nè la scalinata. La Corte di Bari ha ritenuto di escludere tali pertinenze dalla superficie convenzionale, in quanto la norma richiamata li include solo se “di uso esclusivo”. Tale norma però va interpretata nel senso che, laddove tali pertinenze siano di uso esclusivo del conduttore, esse vadano computate per intero, mentre laddove esse siano di uso comune ad altri condomini, esse vadano computate solo per la quota parte corrispondente ai millesimi condominiali spettanti sugli stessi.

Si chiede quindi che la Corte statuisca se l’androne e la scalinata condominiali siano da computare nella superficie convenzionale, in relazione ai millesimi di proprietà.

Il motivo è privo di pregio. L’interpretazione esposta nell’impugnata decisione è infatti chiaramente conforme alla lettera ed alla renio della normativa in questione.

Con il sesto motivo la parte ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, art. 79 ” lamentando quanto segue. L’esponente ha eccepito la prescrizione delle pretese attoree, relative a canoni ultraquinquennali o ultradecennali. Tale eccezione è stata rigettata sul presupposto che la L. n. 392 del 1978, art. 79, consente al conduttore di poter richiedere anche somme di epoca anteriore, purchè tale richiesta venga effettuata entro 6 mesi dal rilascio dell’immobile locato. Il termine semestrale perè è di decadenza, ed è svincolato dal termine di prescrizione, che ha ben altre finalità. La decadenza è infatti determinata dal fatto che, essendo l’equo canone determinato anche in base allo stato dell’immobile locato, il locatore è “tenuto” a conservarlo in tale condizione fino a 6 mesi dopo la cessazione del rapporto locatizio, al fine di consentire il riscontro dello stato dell’immobile. Ben altra terminologia avrebbe dovuto usare il legislatore se avesse voluto sospendere i termini di prescrizione nel corso del rapporto di locazione. Perlomeno avrebbe dovuto dire che il conduttore “può ripetere tutte le somme”, mentre la semplice possibilità di ripetizione lascia intravedere solo la natura decadenziale del termine semestrale, Il motivo è privo di pregio in quanto il vizio denunciato non sussiste.

In particolare va ribadito il seguente principio di diritto (applicato nell’impugnata decisione): “Il termine semestrale di decadenza per l’esercizio dell’azione di ripetizione delle somme sotto qualsiasi forma corrisposte dal conduttore in violazione dei limiti e dei divieti previsti dalla stessa legge, previsto dalla L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 79, comma 2, fa sì che, se l’azione viene esperita oltre il detto termine, il conduttore è esposto al rischio dell’eccezione di prescrizione dei crediti per i quali essa è già maturata, mentre il rispetto del termine di sei mesi gli consente il recupero di tutto quanto indebitamente è stato corrisposto fino al momento del rilascio dell’immobile locato, il che si traduce nella inopponibililà di qualsivoglia eccezione di prescrizione” (Cass. Sentenza n. 10128 del 26/05/2004).

Con il settimo motivo la parte ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 157 c.p.c., comma 2, ed omessa motivazione su punti decisivi della controversia, prospettati dall’appellantè esponendo doglianze da riassumere come segue, l C.T.U. ha determinato, oltre alle somme derivanti dalla differenza tra i canoni versati e quelli dovuti, anche gli interessi legali su dette somme, a decorrere dal loro pagamento. Ha inoltre determinato tali differenze di canone ed interessi fino al 31.12.2000, anche se la richiesta attorea era limitata al 30.9.2000, epoca in cui era avvenuto il rilascio dell’immobile locato. La Corte ha dichiarato che tali doglianze non potevano essere sollevate, non essendo state prontamente rappresentate entro la prima difesa successiva al deposito della C.T.U.. Tale preclusione però riguarda solo i casi di nullità non rilevabile di ufficio degli atti processuali, in quanto la mancata eccezione può costituire tacita rinuncia, ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 2. Nel caso di specie però non è stata eccepita la nullità della C.T.U. (come invece nel punto n. 3 del ricorso), ma è stato contestato il merito della stessa. Benchè il rilascio sia avvenuto in data 30.9.2000 (circostanza pacifica), e la richiesta attorea fosse stata spiegata fino a tale data (indicata nel ricorso), la proprietaria sia stata condannata a pagare differenze canoni ed interessi fino al 31.12.2000, sicchè la medesima ha dovuto “restituire” somme mai riscosse, per ulteriori 3 mensilità La Corte di Bari, che ha ignorato vistosissime nullità del ricorso e della C.T.U., ha invece sancito, con eccessivo ed ingiustificato formalismo, che tali questioni (prettamente di merito), erano precluse perchè non eccepite tempestivamente.

Il motivo è inammissibile.

Infatti la parte ricorrente sembra partire dal presupposto di aver ritualmente inserito le doglianze in questione tra quelle esposte in sede di appello e di aver visto le doglianze medesime disattese dalla Corte con la (generica) dizione (alla fine di pag. 10): “Ogni altra doglianza concernente la c.t.h., non essendo stata sollevata in prime cure entro la prima difesa successiva al deposito della relazione peritale, è preclusa” (se la tesi difensiva fosse diversa sarebbe inammissibile per difetto di compiutezza e chiarezza).

In realtà la Corte non menziona (espressamente e chiaramente) dette censure tra quelle sottoposte alla sua attenzione.

Quindi, proprio per tale ragione, la parte ricorrente avrebbe dovuto indicare ritualmente in quale atto (anche per consentire a questa Corte di stabilire se la censura era stata tempestiva o tardiva), nonchè (per il principio di autosufficienza del ricorso; cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 6807/2007; Cass. Sentenza n. 15952/2007) in che termini, le tesi difensive in questione erano state sottoposte al giudizio del Giudice di secondo grado (cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 20518 del 28/07/2008: “Ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente. Lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa”; cfr. anche Cass. N. 14590 del 2005).

In difetto di tali precisazioni va dichiarata detta inammissibilità.

Sulla base di quanto sopra esposto il ricorso va respinto.

Le peculiarità e la complessità della fattispecie inducono a ritenere sussistenti giusti motivi per compensare le spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2010

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