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Federproprietà AbruzzoDecoro ArchitettonicoCorte di Cassazione, Sezione 2 Civile, Sentenza 4 aprile 2008, n. 8830

Corte di Cassazione, Sezione 2 Civile, Sentenza 4 aprile 2008, n. 8830

Cosa è il decoro architettonico?

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORONA Rafaele – Presidente
Dott. COLARUSSO Vincenzo – Consigliere
Dott. TRIOLA Roberto Michele – Consigliere
Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere
Dott. MALPICA Emilio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MA. GE., elettivamente domiciliato in ROMA VIA CICERONE 28, presso lo studio dell’avvocato IZZO RAFFAELE, che lo difende unitamente agli avvocati GIUSEPPE IZZO, STEFANO MARICONDA, giusta delega in atti;

- ricorrente -

centro

ES. SA., elettivamente domiciliato in ROMA VIA EMILIA 88, presso lo studio dell’avvocato STEFANO VINTI, difeso dall’avvocato DIACO CORRADO giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 3420/02 della Corte d’Appello di NAPOLI, depositata il 21/11/02;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 31/01/08 dai Consigliere Dott. Emilio MALPICA;
udito l’Avvocato DIACO Corrado, difensore del resistente che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Es. Sa., premesso che era proprietario, unitamente alla moglie Ma. An., di una porzione di fabbricato sita in (OMESSO), e che Ma. Ge., proprietario del piano terra e del primo piano del medesimo fabbricato, aveva realizzato una costruzione di circa mq. 25 adibita a servizi igienici e cucina, occupando parte dei beni comuni ex articolo 1117 c.c., rendendo difficoltoso l’accesso al vano cantine e alterando il decoro architettonico dell’edificio, convenne innanzi al tribunale di Torre Annunziata il nominato Ma. Ge., chiedendone la condanna alla eliminazione del manufatto.

Il Ma., contestando il fondamento della domanda, chiese in via riconvenzionale che l’attore fosse condannato a ripristinare lo stato dei luoghi alterato, anche dal punto di vista estetico, dall’inglobamento di un sottoscala di proprietà di esso convenuto.

All’esito del giudizio, il Tribunale rigettò la domanda principale assumendo che l’attore non era legittimato ad agire perché intestataria dell’immobile era la moglie, e, in parziale accoglimento della domanda riconvenzionale, riconobbe il diritto esclusivo del convenuto sul vano sottoscale e ne ordinò la restituzione.

Propose appello Es. Sa., cui resistette Ma. Ge.. La corte di Napoli, con sentenza 16.10.2002, accolse l’impugnazione e condannò Ma. Ge. ad abbattere la costruzione da lui realizzata al piano terra del fabbricato, come individuata dal c.t.u. e nel rilievo grafico ad essa allegato, dichiarò la nullità della sentenza con riferimento alla domanda riconvenzionale, non essendo in giudizio la moglie di Es. Sa., comproprietaria dell’immobile, e rimise per questa le parti innanzi al primo giudice.

A fondamento della decisione, la corte – premesso che l’ Es. era legittimato ad agire quale comproprietario dell’immobile perché coniuge in regime di comunione con l’acquirente – osservò che dalla consulenza espletata era emerso chiaramente che il Ma. aveva edificato il vano in contestazione a ridosso di uno dei due archi asimmetrici che si aprono nel prospetto posteriore dell’edificio, non soltanto inglobando una proprietà comune (qualità desumibile sia dal fatto che lo spazio su cui insiste l’arco costituiva area di appoggio del fabbricato – sia per la funzione comune da esso espletata, quale via di accesso vano cantine) ma anche ledendo il decoro architettonico per la interruzione dell’armonia del prospetto caratterizzato dall’arco centrale di ingresso all’androne e da due archi laterali asimmetrici, uni dei quali era stato sostanzialmente inglobato dalla costruzione, che per buona parte emergeva ponendosi come corpo estraneo e isolato dalla facciata.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Ma. Ge., affidato a tre motivi. Resiste con controricorso Es. Sa..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente denuncia ” violazione e falsa applicazione degli articoli 1117 e 922 c.c., – carenza di istruttoria ed errori nei presupposti”. Contesta il ricorrente la lettura e l’interpretazione del titolo di proprietà esibito dall’Es., allorché la corte afferma che costui è comproprietario pro-quota dell’area sottostante l’arco posto sulla parte retrostante dell’immobile ove è stata realizzata la costruzione oggetto di causa; assume che dall’atto con il quale esso ricorrente aveva ceduto alla sorella An. e al di lei marito Es. Sa. parte del fabbricato, si evince la cessione in comproprietà delle sole porzioni indicate, e cioè “…portone, androne, scale, suolo su cui sorge il fabbricato e lastrici di copertura…’”. A dire del ricorrente, tra dette porzioni non rientrano le zone sottostanti gli archi, che sono cosa diversa dall’androne, come emerge dai rilievi tecnici e dalla descrizione della consulenza tecnica d’ufficio; la funzione degli archi, infatti, sarebbe solo quella di sorreggere la parte sporgente del fabbricato nel lato posteriore che guarda il giardino e di coprire alcuni manufatti preesistenti. Quanto alla funzione di accesso alle cantine, osserva che il fabbricato è dotato di due accessi, e non è necessario che alle cantine debba potersi accedere tutti dalla medesima zona.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 1117 c.c., n. 1; si duole che la corte di merito si sia appiattita sulla consulenza tecnica ed abbia stravolto la lettera e il senso di quanto disposto dall’articolo 1117 c.c., ritenendo che il suolo su cui insiste il fabbricato sia, nella specie, comprensivo anche dello spazio sottostante gli archi laterali. Assume che secondo la giurisprudenza di legittimità per area su cui sorge l’edificio deve intendersi “l’area sottostante al suolo di calpestio del piano terra dell’edificio comune, o in caso di volumi esistenti al di sotto del piano di campagna, l’area sottostante l’ultimo volume utile riconducibile al fabbricato sovrastante”. Conseguentemente, alla stregua del richiamato principio, l’area oggetto di comproprietà non può essere identificata in quella su cui esso ricorrente ha realizzato il corpo di fabbrica, bensi’ quella esistente al di sotto di detta superficie.

I primi due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.

Il ricorrente, sotto l’apparente denuncia di vizi di violazione di legge, deduce questioni di merito, pretendendo di riesaminare in questa sede i titoli di provenienza al fine di comprovare la qualità di bene esclusivo dello spazio sottostante l’arco laterale.

Invero, non è dato cogliere sotto quale profilo possa dirsi violato l’articolo 922 c.c., apparendo piu’ verosimile che il ricorrente volesse alludere ad una erronea interpretazione dei titoli di acquisto della proprietà ; sotto questo aspetto, tuttavia, avrebbe dovuto formulare censure specifiche di altro tipo, evidenziando quali parametri interpretativi fossero stati violati dalla corte di merito. Quanto, poi, alla qualificazione di bene comune data all’area in contestazione, il ricorrente si duole che la corte di merito avrebbe effettuato le sue valutazioni sulla base degli elementi tecnici e fattuali forniti dal c.t.u., “appiattendosi” sulle conclusioni del predetto ausiliario; non deduce, tuttavia, di aver formulato nella sede opportuna le dovute osservazioni alla espletata consulenza tecnica, consentendo cosi’, nel rispetto del contraddittorio, ogni possibile riesame delle questioni oggetto di indagine. Ne consegue che non possono prendersi in considerazione le censure (anche a ritenerle implicitamente mosse) alla motivazione, per il principio secondo cui l’obbligo di esplicitare le ragione dell’adesione da parte del giudice alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, sussiste solo in presenza di precise e circostanziate critiche mosse alle conclusioni stesse dal difensore o dal consulente di parte (cfr. Cass. 1.3.2007, n. 4797). Peraltro, la corte territoriale ha ritenuto che l’area occupata dal Ma. fosse di proprietà comune sulla base di una corretta identificazione dei beni ritenuti tali dall’articolo 1117 c.c., in relazione alla funzione espletata dalla porzione in discorso, sia quale “parte integrante della facciata” – funzione ammessa dallo stesso ricorrente che addirittura attribuisce all’arco la funzione di “sorreggere la parte sporgente del fabbricato nel lato posteriore dello stesso” (pag. 5 del ricorso) -sia quale via di accesso alle rispettive cantine. è palesemente incongruo l’argomento del ricorrente secondo cui la esistenza di una via alternativa di accesso al medesimo locale, renderebbe irrilevante la funzione condominiale espletata dalla zona sottostante l’arco, perché la specifica utilità del suddetto bene (innegabile nel caso di specie) è sufficiente a farlo ritenere di proprietà comune ai sensi dell’articolo 1117 c.c., salvo che la parte interessata non ne dimostri – con titolo idoneo – l’appartenenza alla sua proprietà esclusiva. Come questa corte ha già avuto modo di affermare (cfr. Cass., S.U. 7.7.1993, n. 7449) l’articolo 1117 c.c., non si limita a formulare, con riferimento ai beni da esso indicati, una mera presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini, vincibile con qualsiasi prova contraria, ma ne sancisce in maniera affermativa tale qualità sol che risulti provata la funzione specifica prevista, sicché essa può essere esclusa soltanto dalle opposte risultanze di un titolo appropriato. Nella specie, la mancata produzione di un titolo che consentisse di attribuire la proprietà della parte immobiliare oggetto di causa al Ma. in modo inequivoco, rende irrilevante qualsiasi diversa prova argomentativa finalizzata allo scopo suddetto. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia illogicità e insufficienza della motivazione su un punto decisivo, in merito alla valutazione della corte di merito concernente il danno all’estetica del fabbricato. Si duole il ricorrente che la corte non abbia considerato le ben piu’ devastanti conseguenze derivanti dalla realizzazione da parte dell’Es. di un intero secondo piano dell’edificio che avrebbe radicalmente stravolto l’assetto esterno ed interno dell’intero compendio immobiliare. La corte di merito avrebbe dovuto piu’ ampiamente motivare sulla questione, tanto piu’ considerando che il c.t.u. aveva espresso un giudizio dubitativo, non ritenendo l’intervento eseguito da esso ricorrente come “insopportabile” e determinante nella generale valutazione dell’estetica del fabbricato.

Anche detto motivo è infondato.

Secondo il costante insegnamento di questa corte il decoro architettonico – allorché possa individuarsi nel fabbricato una linea armonica, sia pure estremamente semplice, che ne caratterizzi la fisionomia – è un bene comune il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica assoluta delle modifiche che si intendano apportare (cfr. Cass. 30.8.2004, n. 17398); ne consegue che, nella specie, non può essere messa in discussione la lesi vita dell’intervento edilizio realizzato dal ricorrente, alla stregua dei rilievi formulati dalla corte territoriale, secondo cui l’opera realizzata ha eliminato uno degli archi “interrompendo la omogeneità e linearità del motivo architettonico del piano terreno”. Quanto alla doglianza secondo cui la corte, nel valutare la lesione all’estetica del fabbricato, non avrebbe dato rilievo alle piu’ devastanti conseguenze derivanti dalla realizzazione da parte dell’Es. di un intero secondo piano dell’edificio, si osserva che – se è pur vero che la modifica apportata può non assumere rilievo, sotto il profilo in esame, allorché sussista già una grave evidente compromissione del decoro architettonico dovuto a precedenti interventi sull’immobile (cfr. Cass. 17.10.2007, n, 21835) – nel caso di specie tale compromissione non può essere presa in considerazione perché, come ammette lo stesso ricorrente, l’intervento edilizio operato dalla controparte è ancora oggetto del giudizio rimesso dalla corte territoriale al tribunale di Torre Annunziata, ed è, quindi, ancora suscettibile di integrale rimozione, ove ne ricorrano i presupposti.

Si deve pertanto concludere per il rigetto del ricorso con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio, come da dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio, liquidate in euro 1.300.00, di cui euro 100,000 per esborsi, oltre accessori di legge.

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