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Federproprietà AbruzzoVizi della Cosa LocataCassazione Civile, Sezione III, Sentenza 26 novembre 2002 n. 16677

Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza 26 novembre 2002 n. 16677

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Vittorio DUVA – Presidente - Dott. Renato PERCONTE LICATESE – Rel. Consigliere - Dott. Francesco TRIFONE […]

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Vittorio DUVA – Presidente -
Dott. Renato PERCONTE LICATESE – Rel. Consigliere -
Dott. Francesco TRIFONE – Consigliere -
Dott. Ennio MALZONE – Consigliere -
Dott. Gianfranco MANZO – Consigliere -

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

“CA” DI SANVITO NARCISIO AUGUSTO & C, con sede in Verduggio, in persona del predetto suo socio accomandatario, elettivamente Domiciliata in ROMA VIA LEONE DEHON 50, presso lo studio dall’avvocato BARTOLOMEO CARLO ROMEO, difesa dall’avvocato EDOARDO ZUCCA, giusta delega in atti;

- RICORRENTE -

CONTRO

L. D. SPA;

- INTIMATA -

e sul 2 ricorso n 09503-99 proposto da:

L.D. SPA, con sede in Bergamo, in persona del legale rappresentante pro tempore Dr. Mario Oldani, elettivamente domiciliata in ROMA PZZA MARTIRI DI BELFIORE 2, presso lo studio dell’avvocato MARINA BOTTANI, che la difende anche disgiuntamente all’avvocato GIORGIO BONOMI, giusta delega in atti;

- CONTRORICORRENTE E RICORRENTE INCIDENTALE -

CONTRO

“CA” DI SANVITO NARCISIO AUGUSTO & C, con sede in Verduggio, in persona del predetto suo socio accomandatario, elettivamente domiciliata in ROMA VIA LEONE DEHON 50, presso lo studio dell’avvocato BARTOLOMEO CARLO ROMEO, difesa dall’avvocato EDOARDO ZUCCA, giusta delega in atti;

- controricorrente al ricorso incidentale -

avverso la sentenza n. 259-98 del Tribunale di LECCO, emessa il 30-03-98 e depositata il 20-04-98 (R.G. 40-98);
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06-03-02 dal Consigliere Dott. Renato PERCONTE LICATESE;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Dario CAFIERO, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

Il 15 gennaio 1993, facendo seguito ad analogo contratto preliminare, la CA s.a.s. di Sanvito Narciso Augusto & C. concedeva in locazione alla L.D. s.p.a.

un suo immobile, sito a Valmadrera, affinché fosse destinato a “supermercato”.

Qualche anno più tardi la conduttrice conveniva la locatrice innanzi al pretore di Lecco, assumendo che, in contrasto con le assicurazioni da essa fornite, tanto nel preliminare quanto nel definitivo, l’immobile aveva una destinazione artigianale e non commerciale, e solo il 29 settembre 1995 era stato possibile aprirlo al pubblico, dopo aver ottenuto la concessione edilizia per l’esecuzione dei lavori di adeguamento alla nuova e diversa attività.

Chiedeva pertanto al pretore una riduzione del canone, dal 1 gennaio 1993 in poi, in ragione delle riscontrate carenze dell’immobile, e la condanna della locatrice a restituire quanto percepito in eccesso rispetto al canone ridotto e al risarcimento dei danni.

La convenuta replicava che l’immobile era in regola, avendo da tempo ottenuto tutte le necessarie autorizzazioni, tanto che per dieci anni era stato adibito dalla stessa locatrice all’attività commerciale all’ingrosso e al minuto, nel proprio settore merceologico.

Con sentenza del 22 luglio 1997, il pretore riduceva il canone nella misura del 25%, dal 15 marzo 1993 al 15 marzo 1994, e nella misura del 50%, dal 16 marzo 1994 al 29 settembre 1995; condannava la convenuta a restituire i canoni percepiti in eccesso, pari a lire 67.083.330, e a un risarcimento di lire 100 milioni, oltre agli interessi.

Con la sentenza oggi impugnata, emessa il 20 aprile 1998, il Tribunale di Lecco, in parziale accoglimento dell’appello della Centrouno, ha rigettato la domanda di risarcimento; ha rigettato altresì l’appello incidentale della Lombardini sul “quantum debeatur”.

Per la cassazione di detta sentenza. ricorre la CA, articolando quattro mezzi di annullamento.

Resiste con controricorso e contestuale ricorso incidentale, sostenuto da un unico motivo, la L. D.

La ricorrente principale ha depositato un controricorso per contraddire al ricorso incidentale.

La resistente L.D. ha depositato una memoria.

Diritto

È preliminare, ai sensi dell’art. 335 C.p.c., la riunione dei ricorsi.

Col primo mezzo, denunciando la violazione degli artt. 115 e 116 C.p.c., del D.M. n. 1444 del 1978 e dell’art. 1578 C.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 3 e C.p.c.), la ricorrente principale rileva che il Tribunale, assumendo un’inidoneità all’uso pattuito dell’immobile, che, per contro, era perfettamente conforme, come dichiarato dalla società locatrice, alle previsioni edilizie e urbanistiche, non solo ha violato le norme e i principi vigenti in materia, ma altresì ha ignorato le risultanze istruttorie e documentali inerenti alla destinazione urbanistica dell’immobile, che ne attestavano la piena regolarità.

Sotto un diverso aspetto, il Tribunale ha dato per scontata, in modo acritico, senza alcuna verifica e immotivatamente, la fondatezza delle pretese del comune in ordine agli oneri di urbanizzazione richiesti al conduttore, omettendo di accertare se fossero o meno legittime ovvero se fossero, all’opposto, carenti di base normativa e quindi da disapplicare.

Altrettanto acriticamente ha preso per valide le informazioni acquisite presso il Comune di Valmadrera, il quale, ottenuta la duplicazione degli oneri illegittimamente percepiti, aveva tutto l’interesse a indurre in equivoco il giudicante.

Agli atti è stato documentalmente provato che la modifica di destinazione d’uso dell’intero capannone, da artigianale a commerciale, era stata attuata fin dal 1983, per modo che fin d’allora l’immobile poteva essere destinato al commercio, indifferentemente, al dettaglio o all’ingrosso; sicché il Comune non aveva alcun potere di pretendere adempimenti o contributi per una specificazione d’uso, da uso commerciale all’ingrosso ad uso commerciale al minuto, già insita nella categoria funzionalmente autonoma della “destinazione commerciale”.

Questo motivo è infondato.

La sentenza impugnata, accertato, in punto di fatto, che il certificato di agibilità per l’uso commerciale di vendita al minuto dell’intero capannone fu rilasciato solo il 25 settembre 1995, all’esito di un complesso procedimento amministrativo, dopo due anni e otto mesi dalla conclusione del contratto, e che pertanto è incontestabile l’inidoneità, almeno parziale, del bene ad essere usato secondo la destinazione prevista dalle parti; osserva che di tale impossibilità di adibire l’intera superficie del bene locato all’attività di commercio al minuto la conduttrice non poteva rendersi conto, sia perché dalla documentazione ad essa inviata dalla locatrice non risultava in alcun modo la limitazione del precedente mutamento di destinazione, deliberato nel 1983, a soli 117 metri quadrati, sia perché la locatrice “ha addirittura assunto espressamente nel contratto definitivo la garanzia della regolarità urbanistica della destinazione ad uso commerciale del bene”, così esonerando la conduttrice dall’assumere ulteriori informazioni presso il Comune.

Passa poi la sentenza a considerare che, sulla reale destinazione d’uso dell’immobile al momento della locazione, “emerge una situazione di obiettiva confusione e incertezza”, giacché da un lato la concessione edilizia del 7 giugno 1983 prevedeva, in conformità della richiesta avanzata dalla proprietaria, la destinazione solo parziale (mq. 117 su 646,80) della superficie del capannone all’attività commerciale, e, dall’altro, il permesso di agibilità rilasciato dal comune il 13 settembre 1984 attestava l’avvenuta trasformazione da artigianale a commerciale dell’intero capannone.

Questa situazione “di innegabile incertezza”, determinata dalle contraddizioni insite nei diversi provvedimenti emessi dall’amministrazione comunale, cui deve aggiungersi l’uso commerciale indisturbato del capannone nei dieci anni successivi alla concessione del 7 giugno 1983, esclude che la stessa locatrice potesse avvedersi dell’esistenza dal vizio al momento della conclusione del contratto.

Di qui il diritto della conduttrice ad ottenere, ai sensi dell’art. 1578 C.c., “la riduzione del canone di locazione in proporzione alla diminuita possibilità di godimento del bene secondo l’uso pattuito seguita alle determinazioni dell’amministrazione comunale in ordine alla difformità di questa rispetto alla destinazione d’uso prevista dagli strumenti urbanistici”; mentre deve escludersi il diritto della stessa conduttrice al risarcimento del danno derivato dalla presenza del vizio, non essendo, per quanto detto, l’ignoranza di tale vizio attribuibile a colpa della locatrice.

A fronte di questa motivazione, che ha preso in esame tutti i possibili profili di fatto e di diritto della causa e ha valutato tutte le emergenze probatorie, specialmente documentali, senza incorrere in vizi logici o errori giuridici, non vale opporre una diversa lettura degli atti processuali; e ancor meno vale opporre il convincimento che la pretesa del Comune fosse giuridicamente infondata e che pertanto non occorresse una nuova modifica della destinazione d’uso del capannone, per adibirlo all’attività di commercio al minuto prevista nel contratto, attesa quella, da artigianale a commerciale, già attuata nel 1983.

Ciò per un duplice ordine di ragioni.

Da un lato, il Tribunale ha accertato che il mutamento della destinazione d’uso del 1983, da artigianale a commerciale, aveva interessato, in base alla concessione edilizia, l’unico provvedimento legittimante, non l’intero capannone, ma soltanto una sua piccola porzione di 117 mq. (non valendo a imprimere la nuova destinazione commerciale all’intero capannone la sola licenza di agibilità, erroneamente rilasciata, in difformità dalla concessione, per il tutto); per cui, quanto meno rispetto alla superficie residua, era rimasta ferma, anche se la circostanza, secondo l’apprezzamento del Tribunale, non era facilmente percepibile, l’originaria destinazione artigianale.

In secondo luogo, se è vero che il difetto della concessione amministrativa necessaria per la legittima destinazione della cosa locata all’uso pattuito rientra tra i vizi che, diminuendo in modo apprezzabile l’idoneità della cosa stessa al predetto uso, possono legittimare la risoluzione del contratto o la riduzione del canone ai sensi dell’art. 1578 C.c. (Cass. 23 luglio 1994 n. 6892); e che nel giudizio in cui il conduttore richieda il risarcimento dei danni derivanti da vizio della cosa locata, va esclusa la responsabilità del locatore, sulla base dell’assenza del requisito della colpa, se egli non poteva rendersi conto dell’accertato difetto con la comune diligenza (Cass. 16 marzo 1981 n. 1458); a ben vedere, è sufficiente a integrare il vizio in discorso anche il semplice stato di obiettiva incertezza sulla condizione urbanistica dell’immobile locato, che può rappresentare, anche da sola, come è avvenuto nella fattispecie, una qualità negativa, incidente, per le difficoltà frapposte, allegando la necessità di licenze, permessi o autorizzazioni, dall’autorità amministrativa, sull’effettiva fruibilità del bene conformemente all’uso pattuito.

Ecco perché il giudice di merito non era comunque tenuto ad accertare la fondatezza o meno di quelle che la ricorrente designa come “pretese del Comune”, avendo rilievo, nel rapporto privatistico tra la locatrice e la conduttrice, unicamente il fatto che, per effetto del loro esercizio da parte dell’ente territoriale, l’uso pattuito dell’immobile sia stato considerevolmente ritardato.

Col secondo mezzo, che denuncia la violazione degli artt. 1362, 1363 e 1364 C.c. nonché, ai sensi dell’art. 360 n. 5 C.p.c., omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, la “Centrouno” nega di aver mai assunto formale garanzia dell’idoneità dell’immobile all’uso commerciale e sostiene che il Tribunale è pervenuto all’opposto convincimento con uno scorretto procedimento ermeneutico e disattendendo la documentazione prodotta.

Non poteva infatti essere ignorato il contratto preliminare e segnatamente le clausole n. 12 e 13 (che prevedevano la risoluzione della scrittura se non fosse stata rilasciata l’autorizzazione al commercio al minuto entro il 31 dicembre 1992), dalle quali risulta che la Centrouno, lungi dall’assumersi responsabilità di sorta, concedeva un congruo termine alla Lombardini per riscontrare se fosse possibile ottenere le necessarie autorizzazioni per l’esercizio della propria attività.

Vero che tali clausole non furono ripetute nel contratto definitivo, ma questo fu stipulato su richiesta della Lombardini, la quale evidentemente, nel frattempo, aveva avuto modo di accertare la regolarità urbanistica dell’immobile.

Il Tribunale invece, trascurando questi dati, ha ritenuto prestata la garanzia solo perché l’immobile fu locato per un determinato uso;

mentre, se si fosse posto il problema del mancato inserimento nel contratto definitivo delle clausole n. 12 e 13, avrebbe potuto dedurne che la conduttrice avesse accettato la locazione nonostante la pretesa irregolarità urbanistica dell’immobile.

Una serie di circostanze, insomma, se opportunamente vagliate, avrebbero giustificato la conclusione che la Centrouno non solo non si era assunta nessuna garanzia, ma anzi aveva inteso espressamente escluderla.

Ma non basta, perché il Tribunale ha completamente omesso di pronunciare sulla richiesta di prova testimoniale, tendente a lumeggiare, attraverso comportamenti concludenti, la comune volontà delle parti di escludere ogni garanzia.

Anche questo motivo è infondato.

Secondo l’accertamento del giudice di merito, la Centrouno concesse in locazione gli immobili in questione, “a destinazione commerciale, per il solo uso di commercio al dettaglio, dichiarando la conformità dell’unità immobiliare alle norme edilizie ed urbanistiche”; e pertanto, ad avviso della sentenza impugnata, come si è ricordato dianzi, “ha addirittura assunto espressamente nel contratto definitivo la garanzia della regolarità urbanistica della destinazione ad uso commerciale del bene, rendendo in tal modo non configurabile, alla stregua della comune diligenza, un onere della conduttrice di recarsi presso i competenti uffici del Comune ad assumere informazioni”.

Non paga di questa esauriente motivazione, che attribuisce il dovuto peso all’elemento letterale, la ricorrente sollecita, in sostanza, una nuova interpretazione del contratto, pretendendo di basarla addirittura su clausole del preliminare non riprodotte nel contratto definitivo, offrendo una serie di personali e soggettive valutazioni ed equivocando infine sulla ragione per la quale il Tribunale ha ritenuto prestata la garanzia (che riposa, secondo la sentenza impugnata, su un’espressa assicurazione di regolarità urbanistica del capannone e non già sulla mera enunciazione, nel contratto, dell’uso commerciale).

L’interpretazione dei contratti, concretandosi nell’accertamento della volontà dei contraenti e in un’indagine di fatto, può essere censurata in cassazione soltanto per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle regole ermeneutiche, con la conseguenza che dev’essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella proposta di un’interpretazione diversa.

Quanto infine all’omesso esame dell’istanza istruttoria, la ricorrente è venuta meno all’obbligo di indicare specificamente le circostanze di fatto oggetto della prova testimoniale non ammessa, impedendo così al giudice di legittimità di esercitare il controllo sulla decisività della prova stessa, da compiere, in omaggio al principio di autosufficienza, esclusivamente sulla base delle deduzioni contenute nel ricorso; nel quale, viceversa, la ricorrente di quelle circostanze si è limitata a fornire un generico riassunto, non scevro di personali apprezzamenti, in base al quale il giudizio di decisività non può esser dato con la dovuta compiutezza e certezza.

Col terzo mezzo, basato sul travisamento del fatto (art. 360 n. 5 C.p.c.), la ricorrente principale sostiene che il Tribunale è pervenuto alla decisione impugnata incorrendo “in una serie di macroscopici errori di fatto che l’hanno portato a letteralmente travisare l’intera vicenda”.

Anzitutto la lettera del Comune di Valmadrera del 18 marzo 1993, con la quale, in risposta alla domanda della Lombardini diretta ad ottenere il trasferimento dell’azienda nei nuovi locali, si richiedeva un certo numero di documenti, non stava assolutamente a significare che l’immobile locato non fosse già conforme alle norme urbanistiche, nè tanto meno, come erroneamente affermato dal Tribunale, che per l’adeguamento dell’immobile alle disposizioni vigenti fosse necessario un “complesso procedimento amministrativo”.

Altro equivoco è quello dei lavori che la Lombardini ritenne di eseguire, non, come leggesi nella sentenza, per adeguare l’immobile all’uso commerciale, ma bensì per adattarlo alle sue peculiari esigenze, giacché l’attività propria della Lombardini (esercizio di un supermercato) differiva da quella prima esercitata dalla Centrouno (commercio all’ingrosso e al minuto di acque minerali).

Non è vero pertanto che la Lombardini abbia ottenuto il mutamento di destinazione solo in seguito a un complesso procedimento amministrativo, previo pagamento degli oneri di urbanizzazione, o che il mutamento di destinazione sia stato possibile solo dopo la realizzazione di opere di adeguamento del fabbricato all’uso commerciale.

Il motivo, come concepito, non può trovare ingresso.

Con esso infatti la ricorrente denuncia “travisamento del fatto”, o peggio “una serie di macroscopici errori di fatto”, che avrebbero portato il giudice di appello “a letteralmente travisare l’intera vicenda”; l’”erronea lettura della lettera 18.3.93 del Comune di Valmadrera”, che ne avrebbe ricavato un contenuto “completamente inesatto (ed in manifesto contrasto con i documenti prodotti)”;

l’”equivoco” determinato anche “da una ulteriore erronea lettura” della documentazione relativa ai lavori, e in definitiva dunque un “duplice errore (“sub specie” di travisamento del fatto)”.

Trattasi all’evidenza di censure che, quando non si risolvono, inammissibilmente, in meri apprezzamenti di fatto contrari a quelli manifestati dal giudice di merito, lamentano una serie di sviste di carattere materiale, di erronee percezioni concretanti errori di fatto, come tali da porre a base non di un ricorso per cassazione ma bensì di una revocazione, ai sensi dell’art. 395 n. 4 C.p.c..

Col quarto mezzo, denunciando la violazione degli artt. 1226 e 1237 C.c. e omessa motivazione sulla quantificazione del danno, la ricorrente principale lamenta che il Tribunale non abbia dato alcuna risposta alle censure mosse alla sentenza del pretore, con le quali si evidenzia che il ritardo nell’apertura al pubblico dei locali in questione era imputabile alla locataria, o per la mancanza delle indispensabili autorizzazioni all’esercizio del commercio o per le chieste proroghe, e che la stessa aveva tenuto un atteggiamento di colpevole inerzia di fronte alle infondate pretese dell’amministrazione comunale.

Immotivatamente, in conclusione, è stato posto a carico della locatrice un danno derivante da un comportamento colposo della conduttrice, che pertanto non aveva diritto alla riduzione del canone.

Non può essere accolto nemmeno quest’ultimo motivo.

La sentenza impugnata ha osservato, a proposito della riduzione del canone operata dal pretore, che la stessa “appare del tutto equa, se si considera l’avvenuto acquisto da parte della conduttrice, solo in data 15.3.1994, dell’autorizzazione all’esercizio del commercio in relazione a tutte le categorie merceologiche alla cui vendita era interessata, la possibilità di impiego del bene per attività commerciale, sia pure limitatamente alla superficie di mq. 117, e la conservazione, mediante la permanenza del vincolo contrattuale nel tempo necessario alla regolarizzazione dell’immobile, della possibilità di sfruttare gli investimenti già operati nell’acquisto delle diverse licenze per l’apertura del supermercato”.

Ebbene il Tribunale, dopo aver accertato l’esistenza del vizio e l’indiscutibile diminuzione del godimento dell’immobile che ne è derivata, sul “quantum” della riduzione del canone, ai sensi dell’art. 1578 1 comma C.c., ha valutato l’efficienza causale dal vizio stesso sul ridotto godimento, tenendo conto, seppure sinteticamente, di tutte le circostanze obiettive giudicate idonee ad attenuare quell’efficienza causale, tra le quali, per l’appunto, anche il ritardo della Lombardini D., fino al marzo 1994, nel conseguimento delle autorizzazioni necessarie all’esercizio del commercio da svolgere in quei locali, ed escludendo, per implicito, il rilievo concausale di altre: il tutto con la surriferita motivazione che, per la sua logicità e giuridica correttezza, sfugge alle critiche della ricorrente.

La resistente, a sua volta, denunciando la violazione degli artt.

1575 n. 3, 1578, 1175, 1176, 1218 e 1375 c.c. (art. 360 n. 3 e 5 C.p.c), censura la sentenza nella parte in cui ha escusso la colpa della locatrice, e quindi la sua responsabilità per danni, ed ha rigettato, perché assorbito, il gravame incidentale proposto in relazione al “quantum debeatur”.

La domanda di risarcimento fu ancorata infatti dalla Lombardini non solo all’art. 1578 2 comma C.c., ma anche ad altri fatti costitutivi, quali la garanzia rilasciata dalla Centrouno circa quel particolare uso del bene, l’esistenza di provvedimenti inibitori del Comune di Valmadrera, conosciuti dalla locatrice, e l’impossibilità infine della conduttrice di godere l’immobile locato in conseguenza delle richieste del Comune. Fu dedotta quindi una turbativa del libero e pacifico godimento della cosa locata, secondo le modalità contrattualmente convenute, posta in essere dal Comune e non fatta cessare dalla locatrice, presuntivamente per sua colpa e responsabilità, gravando sul debitore la prova, nella specie non fornita, di aver esattamente adempiuto alle proprie obbligazioni.

Il giudice di appello, che ha del tutto omesso di esaminare questa prima prospettazione, ha poi erroneamente disconosciuto il presupposto soggettivo della speciale responsabilità prevista dall’art. 1578 2 comma C.c., giacché la Centrouno ben conosceva la prassi del comune di esigere la concessione edilizia nel caso di mutamento di destinazione d’uso, tanto che l’aveva essa stessa chiesta e ottenuta per la superficie di 117 mq. Essa era pertanto perfettamente consapevole dell’irregolarità della situazione di fatto esistente, per cui questo suo comportamento non poteva non essere qualificato, anche soggettivamente, come idoneo a giustificare il risarcimento del danno.

Il ricorso incidentale non merita miglior sorte del ricorso principale.

Trattando per primo il secondo profilo della censura, vale rammentare e non occorre ripetere quanto già esposto, nella trattazione del primo motivo del ricorso principale, a proposito delle ragioni per le quali la locatrice non poteva avere contezza, con l’ordinaria diligenza, al momento della stipula del contratto, dell’esistenza del vizio.

Va confermato dunque, in questa sede, il giudizio, già espresso, di congruità e logicità della motivazione svolta dai giudici di appello sull’assenza di colpa della locatrice, giustificata con la situazione di obiettiva incertezza, in cui versava l’immobile sotto l’aspetto urbanistico; e, con esso, il rigetto dell’istanza risarcitoria basata sull’art. 1578 2 comma C.c., ineccepibile in fatto e in diritto.

Quanto adesso al primo profilo, non è possibile prospettare il rifiuto del Comune di concedere l’agibilità per il commercio al minuto senza il previo mutamento di destinazione d’uso alla stregua di una qualsiasi molestia del terzo impeditiva o turbativa del pacifico godimento della cosa locata, che il locatore è tenuto a garantire (art. 1575 n. 3 C.c.). Il locatore è tenuto invero alla garanzia solo per le molestie di diritto che sono quelle poste in essere “da terzi che pretendono di avere diritti” sulla cosa locata (artt. 1585 1 comma e 1586 C.c.): e la molestia di diritto consiste nel fatto del terzo che tenda a privare il conduttore del godimento della cosa locata reclamando un diritto su di essa, ovvero opponendo un diritto contrastante con quel godimento.

Ma non è questo certo il caso dell’intervento spiegato dal Comune nell’adempimento del suo dovere di vigilare, nel pubblico interesse, all’osservanza della normativa urbanistica, e non dipeso comunque, secondo l’accertamento del giudice di merito, da colpa della locatrice.

Esulando del tutto la fattispecie normativa invocata, una pretesa del genere non avrebbe mai potuto trovare accoglimento, e pertanto l’implicita pronuncia di rigetto di questo ulteriore profilo di responsabilità risarcitoria, desumibile dal riconoscimento della sola riduzione del canone, la quale, come è noto, prescinde invece dalla colpa del locatore, è giuridicamente esatta e va confermata.

La soccombenza reciproca è giusto motivo di compensazione delle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa le spese del giudizio di Cassazione.

Così deciso a Roma, addì 6 marzo 2002.

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