Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza 15 luglio 2008 n. 19435
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. VARRONE Michele – Presidente - Dott. MAZZA Fabio – Consigliere - Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere […]
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VARRONE Michele – Presidente -
Dott. MAZZA Fabio – Consigliere -
Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere -
Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere -
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
V.M., elettivamente domiciliata in ROMA presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, difesa dagli avvocati BAZZANI ALESSANDRO, CARLO ARROTTA, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
P.D., elettivamente domiciliata in ROMA VIA OSLAVIA 28, presso lo studio dell’avvocato PORZIO ANTONIO HECTOR, che la difende unitamente all’avvocato LUCA MORANI, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 4384/02 della Corte d’Appello di ROMA, terza sezione civile, emessa il 6/12/02, depositata il 9/01/03, R.G.1484/00;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/04/08 dal Consigliere Dott. Luigi Alessandro SCARANO;
udito l’Avvocato Antonio Hector PORZIO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCARDACCIONE Eduardo Vittorio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
Con ricorso del 13/2/1996 la sig.ra V.M. conveniva avanti al Tribunale di Roma la sig.ra P.D., per ivi sentir nei suoi confronti determinare l’equo canone relativamente all’appartamento sito in (OMISSIS), condotto in locazione giusta contratto con quest’ultima stipulato in data 1/10/1992, con conseguente relativa condanna alla restituzione delle somme percepite in eccedenza.
Nella resistenza della convenuta, che nel contestare quanto ex adverso sostenuto e richiesto deduceva di aver introdotto separato giudizio di sfratto della conduttrice V. per morosità, in ragione della progressiva autoriduzione del canone dalla stessa operata, nonchè per finita locazione, riunite le cause, con sentenza parziale del 19/7/1999 il Tribunale di Roma dichiarava risolto il contratto di locazione de quo per morosità della conduttrice, che condannava al rilascio dell’immobile.
Il gravame da quest’ultima interposto veniva quindi dalla Corte d’Appello di Roma rigettato con sentenza del 9/1/2003.
Avverso la suindicata sentenza della corte di merito la V. propone ora ricorso per cassazione, affidato a 5 motivi.
Resiste con controricorso la P.
Diritto
Con il 1 motivo la ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2722 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si duole che sia stata dai giudici di merito ritenuta ammissibile, nonostante la frapposta opposizione, la prova testimoniale e l’interrogatorio formale da controparte dedotti a dimostrazione della natura transitoria del contratto di locazione, laddove dal medesimo risulta la destinazione ad uso abitativo dell’immobile.
Con il 2 motivo denunzia omessa e/o insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Lamenta che la corte di merito si sia limitata solamente a “bollare” di inconferenza “il punto di gravame sull’inammissibilità delle prove espletate in primo grado, ex art. 2722 c.c…
Con il 3 motivo denunzia violazione e/o falsa applicazione di norme regolanti l’ammissibilità delle prove testimoniali, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè omessa motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Lamenta che “La P., costituendosi in giudizio, ha richiesto il rigetto della domanda di accertamento dell’equo canone, in quanto, a suo dire, il contratto di locazione avrebbe avuto natura transitoriaa, laddove “di fronte al documento comprovante la sua natura abitativa, avrebbe dovuto eccepirne la simulazionee.
Si duole che non avendo controparte affermato “che tra le parti si era raggiunto un accordo che voleva il rapporto essere di più breve durata e a canone liberoo, erroneamente non sia stata dichiarata l’inammissibilità delle prove testimoniali dedotte, “per non essere stata eccepita la simulazione del contratto di locazionee.
Con il 4^ motivo denunzia violazione e falsa applicazione delle norme sull’onere della prova, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Lamenta che erroneamente la corte di merito le addossa “l’onere di dover provare l’inesistenza della natura transitoria del contratto di locazionee.
Si duole che benchè avesse “provato documentalmente la reale natura del rapporto, producendo il contratto inter partes e la scrittura privata aggiuntaa, il giudice non ne abbia tenuto conto, laddove incombeva alla controparte dare la prova di un accordo “difforme dal contenuto del contratto, producendo, a sua volta, documenti in contrasto con la volontà espressa nel negozio stipulato l’1.10.19922.
Con il 5^ motivo denunzia “violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione alla valutazione delle provee.
Lamenta che “le testimonianze rese dai sigg.ri T. e N. (v. ud. 23.3.99) non forniscono quella prova della transitorietà del contratto, da cui il Giudice fa discendere il rigetto del ricorso ex art. 447 bis c.p.c.., giacchè “dalla testimonianza… del sig. T. non può trarsi alcun elemento probante, in quanto egli riferisce di questioni a cui non ha partecipato direttamente (non mi sono occupato direttamente della locazione per cui è causa) ma che gli sarebbero state fatte conoscere dalla Sig.ra N.P., madre della locatrice e terza rispetto al contratto di locazione de quoo.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.
Va anzitutto posto in rilievo che con riferimento alla disciplina contenuta nella L. n. 392 del 1978, n. 392, l’uso abitativo può essere volto a soddisfare esigenze di carattere stabile ovvero anche per un periodo transitorio, e l’espressione “esigenze abitative di natura transitoriaa desumibile dall’art. 1, comma 2, e art. 26, comma 1, lett. a), non va riferita al requisito della temporaneità ovvero intesa come transitorietà “pura e semplice”, nè desumersi dalla durata convenuta per un periodo inferiore a quattro anni, o in quanto nel contratto non risulta specificata quale esigenza abitativa si intende soddisfare, normale e continuativa ovvero saltuaria e transitoria.
Esso dipende esclusivamente dalla natura dell’esigenza abitativa del locatario, da accertarsi in sede giudiziale (v. Cass., 26/7/2005, n. 15627, ove se ne è tratto che in presenza di esigenze di abitazione primaria e normale, sia pure limitate nel tempo, alla locazione destinata a soddisfarle è applicabile la durata legale quadriennale prevista dal citato art. 1; Cass., 15/3/2004, n. 5233; Cass., 11/7/1987, n. 6078).
Nè la saltuarietà delle esigenze abitative può invero desumersi dalla mera circostanza della disponibilità, come nella specie, da parte del conduttore di altro appartamento idoneo alle proprie esigenze abitative nello stesso Comune, non essendo al medesimo invero precluso di scegliere di vivere nell’immobile locato, pur continuando ad anagraficamente risiedere nell’altro (v. Cass., 6/4/2006, n. 8100).
Deve altresì sottolinearsi che per le locazioni ad uso abitativo soggette alla disciplina posta dalla L. n. 392 del 1978, vige la regola generale della durata quadriennale, sicchè la norma che consente una durata minore pone un’eccezione che, in quanto tale, non solo deve essere espressamente pattuita, ma deve essere anche espressamente giustificata, con l’ulteriore conseguenza che grava sulla parte interessata un onere di allegazione e prova sia di detta clausola che della ragione di deroga delle norme sulla durata legale (v. Cass., 31/3/2007, n. 8077).
Incombe pertanto al locatore che eccepisca la destinazione dell’immobile ad uso transitorio dimostrare la ricorrenza dei relativi presupposti (v. Cass., 10/8/2004, n. 15422).
Ciò premesso, va sotto altro profilo richiamato il principio consolidato in giurisprudenza di legittimità in base al quale i motivi posti a base dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina), e sotto quale profilo, abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronunzia di merito.
Ai fini della sussistenza del requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, prescritto a pena d’inammissibilità per il ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., è infatti necessario che nel contesto dell’atto d’impugnazione si rinvengano gli elementi indispensabili perchè il giudice di legittimità possa avere, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti del processo, ivi compressi la sentenza impugnata, una chiara e completa visione dell’oggetto dell’impugnazione, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937).
E’ cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v. Cass., 4/6/1999, n. 5492).
Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 22/5/1999, n. 4998; Cass., 21/5/1999, n. 4916; Cass., 25/3/1999, n. 2826).
Allorquando con quest’ultimo viene come nella specie in particolare denunziato il vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere allora dedotto non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, intese: a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina.
Diversamente, il motivo è inammissibile, in quanto non consente alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (v. Cass., n. 20325 del 2006; Cass., 18/4/2006, n. 8932; Cass-, 20/1/2006, n. 1108).
Non è infatti sufficiente un’affermazione apodittica e non seguita da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente viceversa porre la Corte di legittimità in grado di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali ritiene di censurare la pronunzia impugnata (v. Cass., 18/4/2006, n. 8932; Cass., 15/2/2003, n. 2312; Cass., 21/8/1997, n. 7851).
Quanto al pure denunziato vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va per altro verso ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr. Cass., 25/2/2004, n. 3803).
Tale vizio non consiste invero nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).
La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già, come evidentemente suppone l’odierna ricorrente, il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive; risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842; Cass., 27/4/2005, n. 8718).
Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierna ricorrente.
Sotto il profilo dell’autosufficienza va osservato che essa fa riferimento ad atti e documenti del giudizio di merito (contratto di locazione; scrittura privata integrativa; conteggio versato in atti, ecc.) senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.
A tale stregua non pone invero questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche) in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi, da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).
Quanto ai denunziati vizio di violazione di norme di diritto, con riferimento in particolare alle doglianze concernenti la prova testimoniale va osservato, da un canto, come (in base a principio affermato con riferimento alla nullità della testimonianza resa da persona incapace ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 2, ma da considerarsi di generale validità), l’eccezione di inammissibilità della prova in questione va ribadita subito dopo il relativo espletamento (salvo il caso in cui il procuratore della parte interessata non sia stato presente all’assunzione del mezzo istruttorio, l’eccezione in tal caso potendo essere risollevata nell’udienza successiva), dovendo ritenersi altrimenti sanata, senza che quella preventivamente formulata possa ritenersi comprensiva dell’eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione (cfr. Cass., 3/4/2007, n. 8358; Cass., 15/2/2007, n. 3462; Cass., 17/2/2004, n. 2995).
Orbene, la ricorrente non ha invero dedotto nè a fortiori dimostrato di avere nel caso tempestivamente ribadito la sollevata eccezione di inammissibilità della prova testimoniale; immediatamente dopo la relativa escussione.
Per altro verso, va posto in rilievo come non risulta dalla ricorrente debitamente riportato in ricorso il contenuto degli articolati capitoli della prova testimoniale in questione, al fine di consentire a questa Corte, che non ha accesso agli atti del giudizio di merito, di esaminarli al fine di valutarne (anche) la congruità, concludenza e decisività, con riferimento in particolare al patto asseritamente aggiunto o contrario al contenuto del contratto (v. Cass., 19/3/2007, n. 6440; Cass., 18/4/2006, n. 8932; Cass., 20/12/2005, n. 28233; Cass., 21/5/2004, n. 9711; Cass., 3/2/2000, n. 1203).
Quanto agli altri motivi ove si denunziano vizi di violazione di norme di diritto, anzichè criticare la soluzione adottata dal giudice di merito debitamente prospettando puntuali e specifiche obiezioni ed argomentazioni in diritto di contrasto alla tesi accolta dalla corte di merito, nell’ambito di una valutazione comparativa, la ricorrente inammissibilmente si limita a ribadire le diverse soluzioni già esaminate e non accolte dal giudice del gravame di merito in termini di mera – ed in sede di legittimità invero non consentita – contrapposizione di queste ultime rispetto alle soluzioni accolte nell’impugnata sentenza (cfr. Cass., 8/3/2007, n. 5353; Cass., 17/5/2006, n. 11501; Cass., 25/2/2005, n. 3994).
A tale stregua, la formulata denunzia esula pertanto dalla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, (cfr. Cass., 25/2/2004, n. 3803) e, a parte quanto già più sopra rilevato sotto il profilo dell’autosufficienza, depone per la mera doglianza della ricorrente circa lo sfavorevole esito della lite contrario alle proprie aspettative, per essere state le risultanze di causa valutate in modo difforme dal proprio.
Emerge evidente, a tale stregua, come i motivi in questione risultino inammissibilmente formulati in violazione del principio di autosufficienza (v. Cass., 5/6/2007, n. 13085; Cass., 25/5/2007, n. 12239; Cass., 29/3/2007, n. 7767), nonchè proposti in termini non rispondenti ai sopra delineati schemi, conseguentemente palesandosi anche funzionalmente inidonei.
In ordine alla censura concernente l’interrogatorio formale, a parte quanto già osservato sul piano dell’autosufficienza, va sottolineato che quand’anche si accedesse all’assunto della ricorrente la stessa risulterebbe invero infondata, atteso che come da tempo affermato da questa Corte in tema di prova della simulazione inter partes la legge, mentre vieta (tranne determinati casi) la prova per testimoni e per presunzioni, non vieta invero l’interrogatorio formale, sempre che abbia per oggetto negozi per i quali non sia richiesto l’atto scritto ad substantiam (v., con riferimento all’appalto, Cass., 24/11/1979, n. 6160).
Le limitazioni poste dall’art. 1417 c.c., comma 2, riguardano infatti soltanto la prova testimoniale e, correlativamente (art. 2729 c.c.), quella per presunzioni, e non anche il suindicato mezzo istruttorio volto a provocare la confessione giudiziale della controparte, attesi il carattere di piena prova legale di quest’ultima e la mancanza per essa di una disposizione corrispondente a quella della simulazione diretta non ad accertare un patto aggiunto o contrario al contenuto di un documento, bensì a ricercare la verità reale contro quella formale risultante dall’atto scritto (v. Cass., 13/10/1980, n, 5490).
Nè può d’altro canto sottacersi che, attraverso le risposte date dall’interessato in sede di interrogatorio formale, può essere utilmente acquisita sia la prova piena che un principio di prova, laddove le risposte siano tali da rendere soltanto verosimile la simulazione, con la conseguenza di rendere ammissibile la prova testimoniale in deroga al normale divieto (v, Cass., 17/12/1969, n. 3999).
In ordine alla valutazione delle risultanze probatorie, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in sede di ricorso per cassazione è apprezzabile, va posto ulteriormente in rilievo, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dovendo emergere direttamente dalla lettura della sentenza, e non anche dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (v. Cass., n. 24755 del 2007; Cass., 20/6/2006, n. 14267; Cass., 12/2/2004, n. 2707).
Risponde a tralatizio insegnamento di questa Corte che la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, e l’osservanza degli artt. 115 e 116 c.p.c., non richiedono d’altro canto che il giudice di merito dia conto dell’esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettate dalle parti, essendo necessario e sufficiente che egli esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, offrendo una motivazione logica ed adeguata, evidenziando le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito (v. Cass., Cass., 27/7/2006, n. 17145; Cass., 9/5/2003, n. 7058).
Tale vizio non consiste nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322), solamente a quest’ultimo spettando individuare le fonti del proprio convincimento, e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (v. Cass., 25/2/2004, n. 3803; Cass., 21/3/2001, n. 4025; Cass., Sez. Un., 11/6/1998, n. 5802).
Al riguardo, si noti, – una diversa interpretazione delle risultanze probatorie è in realtà estranea alle valutazioni rimesse al giudice della legittimità, ed è, per ciò stesso, inammissibile, essendo a quest’ultimo conferito non già, come evidentemente suppone l’odierna ricorrente, il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v., Cass., 7/3/2006, n. 4842; Cass., 20/10/2005, n. 20322; v. Cass., 27/4/2005, n. 8718).
Quanto ai denunziati vizi di motivazione, va infine osservato che la ricorrente sostanzialmente si limita invero a dedurli, senza indicare l’insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate tale da non consentire la identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione impugnata (cfr. Cass., 25/2/2004, n. 3803).
Orbene, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti in relazione ai sopra indicati profili, la ricorrente si è invero limitata a formulare deduzioni che, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, si risolvono in realtà nella mera doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte della corte di merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura delle risultanze di causa diversa da quella nel caso operata da tale giudice (cfr., da ultimo, Cass., 18/4/2006, n. 8932).
Emerge evidente, a tale stregua, come la ricorrente in realtà ad altro non miri se non a sollecitare, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 31/5/2006, n. 12984; Cass., 14/3/2006, n. 5443).
All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.600,00 di cui Euro 2.500,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 8 aprile 2008.
Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2008.